TAVI in paziente affetto da sindrome di Niemann – Pick e situs inversus totalis

Daniele De Feo1, Anna D’Anzi1, Vincenzo Pestrichella2, Pietro Scicchitano3, Marco Matteo Ciccone1, Sabino Iliceto2, Carlo Lafranceschina2, Vito Caragnano2

1 Division of University Cardiology, Cardiothoracic Department, Policlinico University Hospital, 70124 Bari, Italy;

2 Interventional Cardiology Service, “Mater Dei” Hospital, 70125 Bari, Italy;

3 Division of Cardiology, “F. Perinei” Hospital, 70022 Altamura, Italy;

ABSTRACT

Il deficit di sfingomielinasi acida, noto anche come malattia di Niemann-Pick (NP), è una rara patologia autosomica recessiva causata dalla carenza dell’enzima lisosomiale sfingomielinasi acida con conseguente accumulo di sfingomielina nelle cellule reticolo-endoteliali e progressiva disfunzione multiorgano.

In letteratura sono descritti solo pochi casi di valvulopatie associate a tale malattia e, in questo scenario clinico, esse vengono trattate esclusivamente mediante correzione chirurgica.

Riportiamo il primo caso di un paziente con malattia di NP tipo B e situs inversus totalis affetto da stenosi aortica severa sintomatica sottoposta a trattamento mediante impianto transcatetere di protesi valvolare aortica (TAVI).

CASO CLINICO

Descriviamo il caso di un paziente di 65 anni affetto da malattia di NP tipo B (diagnosticata all’età di 20 anni), situs inversus totalis, stenosi valvolare aortica severa sintomatica e numerose comorbidità quali BPCO enfisematosa, bronchiectasie, tiroidite di Hashimoto, osteoporosi femorale severa (precedentemente corretta con artroprotesi di ginocchio), osteopenia lombare con conseguente limitazione funzionale e sindrome ansioso-depressiva.

Figura 1: Valutazione ecocardiografica: a) Gradiente medio e massimo a livello della radice aortica; b) Identificazione in B-mode della radice e della valvola aortica tramite finestra apicale.

La malattia di NP è una rara patologia genetica autosomica recessiva causata della mutazione bi-allelica del gene SMPD1 e conseguente deficit dell’enzima lisosomiale sfingomielinasi acida che catalizza l’idrolisi della sfingomielina in ceramide e fosfocolina permettendone lo smaltimento. Il tipo A possiede < 5% della normale attività sfingomielinasica, con conseguente epatosplenomegalia, difficoltà di accrescimento, neurodegenerazione rapidamente progressiva e decesso entro 2 o 3 anni di età. I pazienti con il tipo B (attività enzimatica entro il 5-10% del normale) possiedono invece un fenotipo più variabile, con frequenti epatosplenomegalia, linfoadenopatia, pancitopenia e lieve interessamento neurologico.1, 2 Per la diagnosi di malattia il paziente è stato sottoposto in giovane età a biopsia di midollo osseo che ha evidenziato ipercellularità e abbondanti cellule schiumose istiocitiche come da malattia da accumulo, test genetici con riscontro della mutazione omozigote c.1799 G >A dell’esone 6 del gene SMPD1 (che determina la sostituzione dell’istidina con l’arginina) e test enzimatici che hanno dimostrato la ridotta attività dell’enzima sfingomielinasi. Venivano altresì escluse altre patologie da accumulo (malattia di Fabry, glicogenosi tipo 2 e mucopolisaccaridosi tipo1).

È opportuno sottolineare che la malattia di NP si associa frequentemente a malattie cardiovascolari, sia in età infantile che in età adulta, rendendo necessario uno stretto follow-up cardiologico. Una valutazione sistematica della morbilità e della mortalità in 103 pazienti con NP tipo B ha mostrato che il 9% dei pazienti presenta infatti malattia coronarica o valvolare.3 Sebbene la causa delle valvulopatie frequentemente associate a NP non sia stata ancora identificata con certezza, la malattia coronarica è invece presumibilmente correlata al profilo lipidico pro aterogeno (dislipidemia mista) secondario al deficit enzimatico.1, 3, 4 La disfunzione ventricolare, spesso letale in questi pazienti, può essere dovuta al progressivo deterioramento della funzionalità polmonare o secondaria a sindrome coronarica.5

Figura 2: Scansioni di tomografia computerizzata (TC) del torace che evidenziano il situs inversus. Nello specifico, le scansioni TC, evidenziavano l’inversione delle sedi del cuore e dei grossi vasi.

A seguito dell’insorgenza di dispnea per sforzi lievi moderati e vertigini nel corso dei mesi precedenti, il paziente ha eseguito valutazione cardiologica con riscontro ecocardiografico di riduzione della frazione di eiezione (FE) (45%) rispetto ai precedenti controlli (FE 56%, 12 mesi prima), dissinergia settale di nuovo riscontro e peggioramento della stenosi valvolare aortica già nota con un gradiente medio di 56 mmHg (precedentemente 36 mmHg) (figura 1) ed area valvolare di 0.8 cm2, associato ad insufficienza aortica di grado lieve ed ectasia di radice aortica (40 mm) e aorta ascendente (42 mm).

La TC total-body e l’angio TC (figura 2), eseguite in previsione della correzione valvolare, confermavano il situs inversus totalis ed evidenziavano accessi vascolari femorali idonei alla procedura transcatetere.

La coronarografia documentava origine inversa degli osti coronarici (tronco comune ad emergenza dal seno coronarico destro e coronaria destra, dominante, ad origine dal seno sinistro), con lieve ateromasia in assenza di stenosi angiograficamente significative.

Dopo valutazione collegiale in Heart Team, tenendo conto della complessa situazione sistemica e dell’elevato rischio chirurgico del paziente (Euroscore II > 6%), si optava per una correzione valvolare mediante TAVI, sebbene in letteratura non fosse descritta alcuna esperienza precedente di correzione percutanea della valvulopatia aortica in pazienti con malattia di NP.

Figura 3: Impianto percutaneo della valvola aortica protesica: a) rilascio iniziale della bioprotesi; b) risultato finale dopo il completo rilascio della bioprotesi.

La procedura è stata condotta previo posizionamento di pacemaker temporaneo attraverso vena femorale sinistra (rimosso al termine della procedura), pre-dilatazione della valvola mediante pallone Edwards 20×40 mm ed impianto di protesi biologica transcatetere Portico 29 mm. Per evidenza di leak periprotesico di grado moderato si è proceduto a post-dilatazione della valvola con pallone Edwards 23×40 mm con riduzione del leak al successivo controllo angiografico (Figura 3).

L’ecocardiogramma post-impianto confermava il corretto posizionamento della bioprotesi e l’assenza di gradiente trans-protesico (gradiente medio: 5 mmHg), con leak peri-protesico di grado lieve-moderato. Al controllo ecocardiografico di follow-up a 6 mesi non veniva evidenziato un aumento del gradiente medio (6 mmHg) e si riscontrava ulteriore riduzione del leak peri-protesico.

DISCUSSIONE

Sebbene in letteratura vi siano pochi dati circa la correzione chirurgica della stenosi aortica in pazienti con malattia di NP, spesso con outcome sfavorevoli,6 non esistono invece ancora evidenze sull’utilizzo della TAVI in tale setting clinico. Il presente case report descrive l’unico caso finora noto in letteratura di un paziente con malattia di NP, situs inversus totalis e stenosi valvolare aortica severa sottoposto a TAVI. Sebbene siano necessari ulteriori conferme, soprattutto sugli outcome a lungo termine, reputiamo che la TAVI possa essere una valida opzione per il trattamento della stenosi aortica in relazione alle complesse caratteristiche cliniche di questi pazienti. Alla luce di ciò, la realizzazione di un registro dei pazienti affetti da malattia di NP e concomitanti patologie cardiovascolari potrebbe essere di indubbio vantaggio nella gestione clinica e nel follow-up di tale condizione.

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Miocardite acuta in giovane paziente con malattia infiammatoria cronica intestinale

Simone Fodra, Enrico G. Spinoni, Anna Degiovanni, Ailia Giubertoni, Sara Bacchini, Luisa Airoldi, Lidia Rossi, Giuseppe Patti

Università del Piemonte Orientale, Novara, Italia.

Abstract

La miocardite è una sfida diagnostica vista l’eterogeneicità delle sue presentazioni e meccanismi eziopatogenetici.

Riportiamo il caso di un uomo di 27 anni con una diagnosi di miocardite insorta all’incirca 1 mese dopo l’inizio della terapia con mesalazina per il trattamento di una malattia infiammatoria intestinale inizialmente inquadrata come RCU. La diagnosi di miocardite indotta dal farmaco è stata posta  dopo la regressione dei sintomi e il miglioramento delle condizioni del paziente conseguente la sospensione della terapia con a mesalazina, l’esclusione di altre possibilità diagnostiche e tipicamente l’assenza di reperti caratteristici alla risonanza magnetica cardiaca.

Case report

Figura 1. Ecocardiogramma transtoracico al ricovero.

Paziente maschio di 27 anni, inviato alla nostra attenzione dal curante per dolore toracico intensificato con il respiro associato a febbre elevata persistente (T max 38,5 °C) da circa 10 giorni, responsiva a FANS (ibuprofene), a tosse stizzosa, e a scariche diarroiche ematiche. In anamnesi riferiva un pregresso intervento per asportazione di linfoangioma sottomandibolare destro 20 anni prima, infezione da SARS-CoV2 un anno prima e recente diagnosi di possibile RCU,  per la quale era stato avviato trattamento con Mesalazina 800 mg 1 cp x3/die ( in atto da  3 settimane).

Agli esami ematici all’ingresso si documentava rialzo della troponina (TnI-hs 758 ng/l, cut off normalità 56 ng/l), WBC 12870/uL. All’ECG mostrava ritmo sinusale a 90 bpm, stacco alto del tratto ST in sede laterale. Si eseguiva quindi ecocardiogramma transtoracico (TT) che in acuto mostrava FE ventricolare sinistra ridotta (38%) e riduzione del GLS, ipocinesia diffusa, più evidente a livello della parete laterale ed inferiore, non valvulopatie di rilievo emodinamico (Figura 1). All’RX torace non addensamenti parenchimali in atto.

Avviava terapia cardioattiva con ACE-i e ß-bloccante e sospendeva Mesalazina in 4° giornata di ricovero per sospetto effetto cardiotossico del farmaco, avviando metronidazolo.

Figura 2. Tracciati ECG di fibrillazione atriale e flutter atriale durante il ricovero.

Persistendo dolore addominale il paziente veniva sottoposto a TC addome con mdc con riscontro di colite acuta e focolai di sospetta nefrite a carico del rene destro per cui avviava terapia antibiotica Eseguite urinocolture ed emocolture risultate negative; coprocolture, panel parassitologico, ricerca Clostridium Difficile e Quantiferon risultati negativi. Allo screening siero-virologico per miopericardite veniva riscontrata positività HHV6 e Parvovirus B19 a basso titolo,  non significativi di infezione acuta o pregressa.

Durante la degenza regressione completa del dolore toracico (picco TnI di 758 ng/L riscontrato all’ingresso con normalizzazione nel corso della degenza), vomito ricorrente trattato con antiemetici e risoluzione delle irregolarità dell’alvo (non scariche ematiche durante la degenza), apiretico dalla 9° giornata (picco febbrile 38,2° in seconda giornata), calo degli indici di flogosi con normalizzazione dei WBC (picco 15440/microL in quarta giornata, neutrofili 12590/microL) e della PCR (picco 31 mg/dl in quinta giornata).

Visto il quadro clinico non indicativo per infezione in atto, veniva avviata terapia steroidea (Budesonide).

Durante la degenza si sono registrati plurimi parossismi di FA e flutter 2:1, auto-risoltasi (in un’occasione somministrato con beneficio carico di Amiodarone); non avviata terapia anticoagulante orale per CHA2DS2-VASC = 0 (Figura 2).

Figura 3. Ecocardiogramma transtoracico di controllo intra-ricovero con miglioramento della funzione ventricolare sinistra e dei valori di global longitudinal strain.

L’ecocardiogramma ha mostrato un progressivo miglioramento progressivo della funzionalità cardiaca: con stima di FE ventricolare sinistro pari a  54%, normalizzazione dei valori di GLS non deficit di cinetica segmentaria  non versamento pericardico (Figura 3).

Eseguito inoltre screening reumatologico con riscontro di positività per ANCA, reperto aspecifico nel contesto di quadro infiammatorio acuto in atto.

Veniva inoltre eseguita risonanza magnetica (RM) cardiaca con MDC che documentava FE ai limiti inferiori di norma (FE 54%) in assenza di edema e/o fibrosi miocardica (Figura 4). Inoltre come esame di approfondimento, veniva eseguita PET Total-body che confermava assenza di patologia ad elevata componente metabolica a livello totale corporeo ed in particolare in corrispondenza delle pareti dei grandi vasi.

Discussione

Figura 4. Risonanza magnetica cardiaca che documentava assenza di segni patologici caratteristici.

La Mesalazina (5-ASA) è comunemente prescritta come terapia medica di prima linea nel trattamento della colite ulcerosa (RCU). Gli effetti collaterali più frequentemente riportati sono nausea, vomito e dolore addominale. Effetti collaterali più rari includono pancreatite, discrasie ematiche e problemi cardiovascolari. La miocardite è una complicanza rara della terapia con 5-ASA con conseguenze però potenzialmente letali. Il meccanismo con cui 5-ASA causa la miocardite non è chiaro, ma è ipotizzato essere cellulo-mediato, attraverso una reazione di ipersensibilità.

La miocardite da Mesalazina si verifica entro 2-4 settimane dall’ inizio del trattamento. Gli studi pubblicati su questo argomento hanno dimostrato come le complicanze cardiache da 5-ASA rispondono bene alla semplice interruzione di questo farmaco, supportando ulteriormente l’ipotesi del maccanismo sottostante da ipersensibilità.

Tuttavia, stabilire una diagnosi di miocardite causata da 5-ASA è particolarmente difficile perché non ci sono risultati specifici derivati da dati di laboratorio o imaging cardiaco che siano  patognomonici di questa condizione. Le caratteristiche chiave da riconoscere sono l’esordio del dolore toracico, dispnea o febbre subito dopo l’inizio del trattamento, di solito entro 28 giorni. Tecniche di imaging non invasive come l’ecocardiografia e la RM cardiaca hanno una buona capacità diagnostica e possono offrire un’alternativa alla biopsia miocardica, che pur rappresentando il gold standard diagnostico, viene eseguito raramente.

L’interruzione del trattamento con 5-ASA dovrebbe essere sempre applicata pur essendo necessario escludere altre cause di miocardite, tra cui forme virali, secondarie a vasculite o a manifestazioni extraintestinali di IBD.

Conclusioni

In pazienti che si presentino con dolore toracico, dispnea e febbre entro 28 giorni dall’avvio di Mesalazina, la terapia deve essere interrotto immediatamente, in quanto il farmaco rappresenta una rara, seppur possibile causa di miocardite acuta, con conseguenze potenzialmente drammatiche.

Le attuali linee guida per la diagnosi e trattamento dello scompenso cardiaco sono adatte alla complessità clinica della patologia e del paziente?

Paolo Severino, Andrea D’Amato, Silvia Prosperi, Alessandra Dei Cas, Anna Vittoria Mattioli, Pasquale Pagliaro, Massimo Mancone, Francesco Fedele.

Università di Roma La Sapienza

Abstract

L’insufficienza cardiaca (IC) è una sindrome clinica caratterizzata da segni e sintomi associati ad anomalie strutturali e/o funzionali cardiache che determinano una portata cardiaca inadeguata e/o  aumento delle pressioni di riempimento intraventricolari. Nell’Agosto 2021 la società europea di cardiologia ha pubblicato le ultime linee guida sulla diagnosi e trattamento dell’IC, secondo le quali la frazione d’eiezione continua a rimanere un parametro cardine per la valutazione, stratificazione del rischio e gestione terapeutica del paziente affetto da IC, malgrado i suoi ben noti limiti. Infatti i meccanismi fisiopatologici dell’IC sono molteplici e complessi comprendendo inizialmente solo il cuore, esitando poi in un’insufficienza multiorgano. In questi termini, l’IC è assimilabile alla malattia neoplastica. Alla luce di queste considerazioni, una revisione del concetto di IC è necessaria per superarne la semplicistica visione.

Introduzione

L’ insufficienza cardiaca (IC) è una sindrome clinica caratterizzata da segni e sintomi associati ad anomalie strutturali e/o funzionali cardiache che determinano una portata cardiaca inadeguata e/o aumento delle pressioni di riempimento intraventricolari [1,2]. Nell’Agosto 2021 la società europea di cardiologia (ESC) ha pubblicato le ultime linee guida sulla diagnosi e trattamento dell’IC, continuando a considerare la frazione d’eiezione (FE) un parametro cardine per la valutazione, stratificazione del rischio e gestione terapeutica dei pazienti, malgrado i suoi ben noti limiti[3-10]. Recentemente, è stato proposto un approccio innovativo per classificare l’IC basato sui fenotipi clinici. L’uso di fenotipi clinici, lungo l’intero spettro dell’IC, per categorizzarne i pazienti rappresenta certamente un approccio pratico per portare ordine nella complessità della patologia [3]. Benché tale approccio superi la natura categoriale della classificazione dell’IC secondo la FE, potrebbe risultare troppo semplicistico per una malattia dalle molte sfaccettature come l’IC. L’approccio “fenotipico” considera l’IC come una malattia continua ed in evoluzione, dando più enfasi alle comorbidità e fattori di rischio. Tuttavia, conserva la medesima visione cardiocentrica della FE: diversi fenotipi di IC sono estrapolati da una relazione non lineare tra variabilità della FE e volume telediastolico ventricolare. Ulteriori sforzi sono necessari per ottimizzare la classificazione dell’IC. In particolare dovrebbe essere data più enfasi al coinvolgimento multiorgano progressivo che renderebbe l’IC simile alla malattia neoplastica. Molteplici aspetti clinici, come il coinvolgimento renale e polmonare, l’anemia, la disfunzione epatica e neurologica, come anche specifici biomarkers circolanti sono spesso non considerati, malgrado abbiano un grande impatto sulla morbidità e mortalità dei pazienti con IC, indipendentemente dalla FE [1,11]

I pitfalls della FE

La classificazione dell’IC basata sulla FE ha diversi limiti. In primo luogo, non considera il meccanismo fisiopatologico e l’eziologia specifica sottostante l’IC [4,5]. Inoltre, diversi sono i limiti tecnici di acquisizione di tale parametro. Infatti, la FE è derivata da un assunto geometrico che possiede una variabilità inter e intra osservatore molto elevata [4,12]. La FE è una misura dipendente dal carico volemico. E’ rilevante come la classificazione dell’IC basata sulla FE non sia strettamente correlata alla prognosi. Spesso i pazienti con FE preservata hanno una prognosi peggiore in termini di mortalità e ospedalizzazioni, di quelli a FE ridotta [4]. Nonostante l’assenza di riduzione della FE ventricolare sinistra sia criterio fondamentale per la diagnosi di IC a FE preservata, diversi studi hanno mostrato alterazioni della funzione sistolica come la riduzione dell’escursione sistolica del piano valvolare mitralico e la riduzione dello strain longitudinale [13-16]. Oltretutto, l’alterazione del valore di S’, con la tecnica del Doppler tissutale, appare intimamente collegata alla disfunzione diastolica a dimostrazione che la disfunzione sistolica è spesso presente nei pazienti con IC a FE preservata. L’IC a FE ridotta e quella a FE preservata condividono meccanismi fisiopatologici comuni: l’ipofosforilazione della titina [3,17,18]. Un altro meccanismo condiviso è rappresentato dall’ingrandimento atriale sinistro. La sua funzione e il suo volume correlano con la capacità di esercizio e hanno un valore prognostico indipendente dalla FE. [11,19]. Tali evidenze dimostrano che termini come “preservata”, “ridotta”, “sistolica” e “diastolica” possano risultare sovrapponibili e ingannevoli per la stratificazione dei pazienti con IC.

La gestione terapeutica dell’IC: le indicazioni ingannevoli.

Figura 1

Forti evidenze suggeriscono come la compliance alla terapia per l’IC sia correlata ad una prognosi migliore [20,21]. La maggior parte dei pazienti affetti da IC ha una bassa aderenza e incongrua titolazione della terapia [22,23]. Questo aspetto potrebbe avere una base fisiopatologica, poiché tali pazienti hanno una malattia complessa con coinvolgimento multiorgano, e, per tale ragione, non immediatamente adatti ad iniziare tutti i farmaci previsti. Il coinvolgimento renale, per esempio, è presente in circa il 50% della popolazione con IC, ed ha un ruolo determinante nell’aumentare la morbi-mortalità nell’IC [24]. Ciò è dovuto ad un gradiente ridotto lungo il capillare glomerulare determinato da un aumento della pressione venosa centrale e riduzione della gittata anterograda [25]. La disfunzione renale, in particolare l’insufficienza renale acuta, può rappresentare un limite per i numerosi farmaci indicati come gli ACEi/ARNi. Per quanto concerne gli anti-aldosteronici (MRA), nell’EMPHASIS-HF trial, pazienti trattati con Eplerenone hanno mostrato un peggioramento della funzione renale ed un aumento della kaliemia rispetto ai placebo [26]. Tuttavia, diversi trial clinici hanno mostrato diversi benefici nei pazienti con IC e malattia renale cronica trattati con MRA [27]. L’azione nefroprotettiva è stata ampiamente dimostrata per i farmaci SGLT2i [28-30]. Questo paradosso sottolinea un altro limite nell’attuale approccio terapeutico tetrafarmacologico, raccomandato nelle recenti linee guida ESC [1]: il trattamento è basato sulla FE, e non considera i differenti stadi di severità dell’IC e del coinvolgimento renale. La terapia proposta dalle attuali linee guida è attuabile solo in una piccola percentuale di pazienti, in quanto non è possibile sempre somministrare tutti i farmaci suggeriti immediatamente.

Una revisione estesa dell’attuale paradigma dell’IC dalla definizione alla terapia è richiesta a causa delle limitazioni esposte (Figura 1). La valutazione della FE e dei sintomi tramite la classe NYHA appare troppo semplicistica ed inaccurata per la diagnosi, per la stratificazione prognostica e la gestione terapeutica dei pazienti con IC. L’IC è paragonabile alla malattia neoplastica in quanto inizia come malattia cardiaca, diventando progressivamente multiorgano. Come per il cancro, la sopravvivenza, la morbidità e l’ospedalizzazione sono collegati non solo alla massa neoplastica primitiva ma soprattutto alla diffusione metastatica.

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MitraClip procedure as a bridge therapy to heart transplantation after a combined pharmaco-mechanical treatment

Andrea Raffaele Munafò, MD1,2, Alessandro Mandurino Mirizzi, MD1, Claudia Raineri, MD1, Giulia Magrini, MD1, Fabrizio Gazzoli, MD1, Martina Moschella, MD1, Romina Frassica, MD1, Stefano Ghio, MD1, Maurizio Ferrario, MD1, Marco Ferlini, MD1, Gabriele Crimi, MD1.

1 Division of Cardiology, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo Foundation, Pavia, Italy.

2 University of Pavia, Pavia, Italy.

Caso clinico

Una donna di 55 anni, con diagnosi di cardiomiopatia dilatativa dal 1997, veniva riferita al nostro centro nel gennaio 2018 per un quadro di scompenso cardiaco avanzato in presenza di insufficienza valvolare mitralica (IM) di grado severo. Al momento della nostra valutazione, la paziente era già in terapia medica ottimizzata al massimo dosaggio tollerato (ARNi incluso) ed era già stata sottoposta a terapia di resincronizzazione cardiaca (CRT-D).  Nonostante questo, la paziente presentava un peggioramento dei sintomi dello scompenso (classe funzionale NYHA III), necessitando nei 6 mesi precedenti di 2 ricoveri ospedalieri dove era stata trattata con terapia endovenosa con furosemide e sodio nitroprussiato (NTP).

L’ecocardiogramma eseguito al momento del ricovero mostrava un ventricolo sinistro severamente dilatato (volume telediastolico indicizzato 246 ml/m2, diametro telediastolico 80 mm, diametro telesistolico 74 mm), con una severa riduzione della funzione sistolica globale (FE 20%), una significativa dilatazione dell’atrio sinistro (volume indicizzato 82 ml/m2), ed una IM di grado severo. Quest’ultima era caratterizzata da un’eziologia mista: dilatazione anulare (pattern principale) e rimaneggiamento post-reumatico delle corde tendinee e dei lembi valvolari, condizionante un tethering asimmetrico dei lembi con un gap di coaptazione di circa 4 mm (figura 1A). La funzione e la dimensione del ventricolo destro erano ancora preservate (TAPSE 20 mm).

La paziente veniva quindi sottoposta ad un cateterismo cardiaco destro che mostrava un quadro emodinamico caratterizzato da un basso indice cardiaco (1,66 l/min/m2), una lieve ipertensione polmonare post-capillare (PAP media 26 mmHg, pressione di incuneamento 23 mmHg, resistenze polmonari 1.1Wood Units), ed una normale pressione atriale destra (5 mmHg).

Figura 1. Valutazione con ecocardiogramma transesofageo dell’insufficienza mitralica: A) al baseline; B) dopo infusione di NTP e levosimendan, in corso di supporto con IABP. C) Confronto dell’entità del jet di rigurgito mitralico al baseline e dopo la procedura.

In considerazione della gravità del quadro clinico-strumentale, discusso il caso in Heart Team, si decideva di non candidare la paziente ad un intervento di riparazione chirurgica della valvola mitrale, e di inserirla in lista d’attesa per il trapianto di cuore (HTPL). Inoltre, in considerazione del gap di coaptazione tra i lembi mitralici di circa 4 mm, una possibile riparazione percutanea del vizio mitralico (TMVR) con il sistema MitraClip veniva ritenuta non fattibile. Tuttavia, in considerazione della sintomatologia ingravescente e della scarsa qualità di vita della paziente nonostante la terapia medica, si decise di mettere in atto una strategia terapeutica che potesse ridurre il gap di coaptazione tra i lembi mitralici, al fine di eseguire una TMVR come “terapia ponte” al HTPL.

Quattro giorni prima dell’intervento di TMVR, la paziente veniva quindi sottoposta ad una infusione continua di NTP per 48 h, seguita da un ciclo di infusione di levosimendan per 24 h. Il giorno prima della procedura, veniva infine posizionato il contropulsatore aortico (IABP, con frequenza 1:1). Al controllo con l’ecocardiogramma transesofageo (ETE) eseguito 6 ore dopo il posizionamento dell’IABP, il gap di coaptazione era stato ridotto a 2.2 mm (figura 1B), in assenza però di una riduzione della severità dell’IM e/o di un miglioramento della funzione sistolica ventricolare sinistra. Mantenendo il supporto del circolo con l’IAPB, si procedeva pertanto a TMVR con il posizionamento di due clip in assenza di complicanze. Al ETE post-procedurale si apprezzava un IM residua di grado lieve, con normalizzazione del flusso a livello delle vene polmonari (figura 1C). Al cateterismo cardiaco destro di controllo, veniva osservato un miglioramento immediato del 25% dell’indice cardiaco.

Nei 18 mesi successivi, la paziente è andata incontro ad un progressivo miglioramento clinico (classe funzionale NYHA I) in assenza di nuovi ricoveri per riacutizzazione di scompenso cardiaco, tanto da richiedere l’esclusione dalla lista di attesa per HTPL.

Discussione

Il HTPL resta ad oggi la migliore opzione terapeutica per i pazienti con scompenso cardiaco avanzato. Tuttavia, a causa dei tempi di attesa sempre più lunghi, i pazienti in lista per HTPL spesso necessitano di “terapie ponte” al fine di migliorare la loro condizione clinica e la qualità di vita. Mentre altri trattamenti farmacologici e/o meccanici (es. LVAD) sono comunemente utilizzati come terapie ponte al trapianto nella pratica clinica di tutti i giorni, poche evidenze1-3 sono ad oggi disponibili riguardo l’uso di TMVR con MitraClip nei pazienti con scompenso cardiaco avanzato e concomitante IM severa, in attesa di HTPL.  Il risultato ottenuto nella paziente del caso clinico sopra descritto sottolinea come, in questa tipologia di pazienti, l’IM funzionale non svolga soltanto un ruolo principale nell’accentuazione dei sintomi dello scompenso e nell’aumento del tasso delle ospedalizzazioni, ma che possa anche incidere sulla prognosi a lungo termine4. La TMVR con MitraClip associata alla terapia medica ottimizzata può quindi garantire un miglioramento della sopravvivenza di questi pazienti, come dimostrato dai recenti risultati del COAPT trial5.

In conclusione, nei pazienti con scompenso cardiaco avanzato ed IM di grado severo, che sono ancora sintomatici nonostante la terapia medica, e per i quali il HTPL rimane il trattamento definitivo più efficace, la TMVR con MitraClip può rappresentare un’ottima strategia di terapia ponte, garantendo una stabilizzazione clinica ed emodinamica, e soprattutto migliorandone la sopravvivenza.

References

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Un caso inaspettato di cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro (ARVC).

Gaetano Bernardini2, F. Crusco 1, A. Broccatelli 2, K. Savino2.

Cardiologia e Fisiopatologia Cardiovascolare – Università degli Studi di Perugia

1 U.O. Radiologia – Azienda Ospedaliera di Perugia

2 U.O. Cardiologia – Azienda Ospedaliera di Perugia

ABSTRACT

Un uomo di 60 anni giungeva in PS per dispnea ed edema agli arti inferiori con segni di congestione polmonare e sistemica. Agli esami di laboratorio elevati valori di TnHS e di NT-pro-BNP con onde T negative in V1-V3 all’ ECG. L’ecocardiogramma mostrava riduzione della funzione sistolica con ventricolo destro dilatato ed ipocinetico. Presentava ripetuti runs di tachicardia ventricolare. L’esame coronarografico risultava negativo. Nel sospetto di cardiomiopatia aritmogena eseguiva RMC che mostrava disfunzione e dilatazione del ventricolo destro dilatato, confermando la suddetta diagnosi. Pertanto, veniva sottoposto ad impianto di ICD ed eseguito screening nei familiari di primo grado.

CASO CLINICO

Un uomo di 60 anni senza fattori di rischio, né precedenti cardiovascolari di rilievo, giungeva in PS per progressivo peggioramento della dispnea e degli edemi agli arti inferiori; negli ultimi giorni riferiva dispnea per minimi sforzi ed episodi di dispnea parossistica notturna, negava episodi di dolore toracico, cardiopalmo e sincope.

All’accesso in PS si presentava emodinamicamente stabile, con parametri vitali nella norma (PA 120/70 mmHg), FC 85 bpm, ma con valori di saturazione  90% in aria ambiente associata a tachipnea (FR 30 atti/min). All’esame obiettivo si evidenziavano, a livello del torace, murmure vescicolare (MV) ridotto simmetricamente ai campi medio-basali ed edema improntabile a livello di entrambi gli arti inferiori. Gli esami di laboratorio risultavano nella norma, eccetto per elevati valori di TnHS e di NTproBNP. L’ECG eseguito in PS mostrava onde T negative a livello delle derivazioni precordiali destre (V1-V3). Durante la valutazione clinica il paziente ha presentato numerosi runs di tachicardia ventricolare sia non sostenute che sostenute con morfologia a blocco di branca sinistra che rapidamente hanno determinato un deterioramento dell’emodinamica tale da richiedere cardioversione con DC-Shock.

L’ecocardiogramma transtoracico mostrava severa riduzione della funzione sistolica del ventricolo sinistro con frazione d’eiezione del 30%, data da ipocinesia diffusa ed associata severa disfunzione del ventricolo destro (TAPSE 8 mm; Onda S’ al TDI = 6 cm/s), il quale appariva marcatamente dilatato. Data l’evidenza al monitoraggio ECGgrafico continuo di tachicardie ventricolare non sostenute veniva introdotta terapia antiaritmica per via endovenosa con lidocaina ed amiodarone grazie alla quale si assisteva a progressiva riduzione degli episodi tachiaritmici. Inoltre, in considerazione della concomitante presenza di segni e sintomi di congestione a livello polmonare ed a livello sistemico, il paziente veniva trattato con diuretici dell’ansa e farmaci vasodilatatori per via endovenosa fino al miglioramento del quadro di compenso ed al raggiungimento dello stato di euvolemia.

Dopo il superamento della fase acuta, per escludere l’eziologia ischemica del quadro di disfunzione ventricolare sinistra riscontrato, si sottoponeva il paziente ad esame coronarografico che  mostrava vasi coronarici angiograficamente normali. Il quadro elettrocardiografico ed ecocardiografico, correlato alla morfologia delle tachicardie ventricolari hanno portato al sospetto clinico di cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro (ARVD). Per confermare tale diagnosi, il paziente veniva sottoposto a risonanza magnetica cardiaca (RMC) (Figura 1) che confermava dilatazione del ventricolo destro con ridotta funzione sistolica e discinesia focale a livello del terzo distale oltre che LGE a livello della parete infero-laterale del ventricolo sinistro e della parete libera del ventricolo destro. L’esito della RMC rispondeva a due criteri maggiori per la diagnosi di ARVD (frazione d’eiezione del ventricolo destro = 25%; volume telediastolico del ventricolo destro 308 ml/m2), permettendoci, quindi, di giungere alla diagnosi definitiva. Successivamente, vista la storia clinica che gli conferiva un alto rischio di morte cardiaca improvvisa il paziente è stato candidato ad impianto di defibrillatore (ICD) e i familiari di primo grado sono stati sottoposti a screening per la suddetta cardiomiopatia.

CONCLUSIONI: Questo caso clinico dimostra come la presentazione della cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro (ARVD) può essere non specifica e la diagnosi può risultare difficoltosa. Le implicazioni che questa cardiomiopatia presenta dal punto di vista prognostico per la vita del paziente e dei familiari impone di considerarla sempre come possibile diagnosi differenziale al fine di evitarne un ritardo nella diagnosi.

Due culprit per uno STEMI?

Enrico Ponti, Chara De Toni, Chiara Idini, Gianluca Pillitteri, Roberto Saiu, Renata Malivojevic, Giuseppe De Luca

Scuola di Specializzazione Malattie dell’Apparato Cardiovascolare, Università di Sassari

Abstract

La sindrome coronarica acuta con sopralivellamento del tratto ST è una condizione clinica causata da un’occlusione trombotica acuta di una arteria coronaria (culprit lesion). È sempre più comune, nel contesto di tale scenario, il riscontro di una coronaropatia multivasale. Questo dato è anche dovuto ad un trattamento sempre più tempestivo dell’infarto miocardico acuto, che ha aumentato considerevolmente la sopravvivenza dei pazienti con diagnosi di IMA negli ultimi anni. Riportiamo il caso di un paziente di 57 anni con SCA STEMI inferiore e riscontro angiografico di due culprit lesion.

Introduzione

L’ischemia miocardica e l’infarto sono causati da diversi processi fisiopatologici che portano ad uno squilibrio tra il fabbisogno e apporto miocardico di ossigeno. Questo mismatch, se grave o prolungato, causa la necrosi miocardica.  La riduzione del flusso in un infarto con sopralivellamento del tratto ST è spesso data da un’occlusione trombotica totalmente occlusiva che colpisce solitamente un vaso coronarico, causando un’ischemia transmurale. In questo case report riportiamo il caso di un uomo di 57 anni con infarto miocardico inferiore, in cui sono state identificate due culprit lesion.

Caso clinico

Un uomo di 57 anni, forte fumatore, riferiva da circa tre giorni la comparsa di dolore toracico oppressivo, associato ad astenia e lieve dispnea; per tale motivo aveva contattato il 118. Eseguito l’ECG, è stato riscontrato un infarto miocardico acuto con sopralivellamento del tratto ST in sede inferiore. Per tale motivo il paziente ha eseguito l’accesso presso la Sala di Emodinamica dell’Ospedale di Oristano, dove è stata eseguita una coronarografia in regime d’urgenza.

Figura 1

L’angiografia ha evidenziato un quadro di coronaropatia multivasale (Figura 1), in particolare ha mostrato:

  • Coronaria destra (Cdx) occlusa al tratto prossimale (TIMI 0) con presenza di vistoso materiale trombotico;
  • Ateromasia moderata dell’interventricolare anteriore (IVA) media, con occlusione di IVA distale (TIMI 0);
  • Stenosi critica della circonflessa(CX) al tratto medio-distale ed ateromasia moderata del tratto prossimale in biforcazione con marginale ottuso (MO1))

Di fronte a questo quadro angiografico si è optato per eseguire in prima istanza l’angioplastica primaria della Cdx. Dopo somministrazione di Tirofiban, e’ stato innanzitutto rimosso il materiale trombotico mediante tromboaspirazione con successiva predilatazione della lesione e impianto di DES. Ripristinato il flusso è stata evidenziata una severa ateromasia nella porzione medio-distale del vaso: pertanto si è proceduto con un ulteriore impianto di DES, ottenendo un ottimo risultato angiografico finale (Figura 2).

Successivamente è stato eseguito il controllo angiografico dell’IVA. Si può osservare dalla figura 2 una ricanalizzazione del vaso e residua stenosi subocclusiva, probabilmente dovuta all’utilizzo dell’eparina e di inibitori della Glicoproteina IIb-IIa. Notiamo inoltre che le caratteristiche angiografiche dell’occlusione indirizzano verso una trombosi acuta.

Figura 2

È opportuno, dunque, valutare come approcciare questa lesione, ovvero se optare per una rivascolarizzazione intraprocedurale oppure differita.

A tal proposito, sono state fatte diverse considerazioni:

  • L‘IVA si presenta in questo caso iperdominante, circonda e supera l’apice cardiaco contribuendo in maniera significativa all’irrorazione delle porzioni apicali del setto inferiore e delle porzioni distali della parete inferiore;
  • In concomitanza, notiamo come la Cdx distale e l’IVP siano in realtà di esile calibro.

In tale contesto la lesione dell’IVA distale è stata considerata, date le sue caratteristiche, una seconda lesione culprit. Pertanto, è stata eseguita la procedura di angioplastica primaria ottenendo un ottimo risultato finale (Figura 3).

Per quanto riguarda le lesioni della Cx, in virtu’ della distalità della lesione critica su MO, si è optato per un approccio conservativo ottimizzando la terapia medica e programmando una valutazione con imaging stress test al follow-up. La successiva degenza è decorsa in maniera regolare e priva di complicanze. L’elettrocardiogramma in dimissione mostrava un ritmo sinusale con segni di necrosi in sede inferiore. L’ecocardiogramma confermava i segni elettrocardiografici evidenziando un’acinesia dei segmenti medio-basali del SIV inferiore e della parete inferiore, seppur con una funzione sistolica conservata (EF 58%).

Discussione

Questo case report offre uno spunto di riflessione sull’approccio dei pazienti con SCA STEMI nel contesto di una coronaropatia multivasale. Le linee guida sulla rivascolarizzazione miocardica della Società Europea di Cardiologia indicano che la rivascolarizzazione delle lesioni non culprit dovrebbe essere considerata prima della dimissione (IIA), non specificando però il timing (intraprocedurale vs staged). Questi dati sono supportati da diversi trial randomizzati (RCT) qualiPRAMI, CvLPRIT, DANAMI-3-PRIMULTI, COMPARE-ACUTE, COMPLETE, che hanno dimostrato nella loro globalità come una rivascolarizzazione completa, durante il ricovero per una SCA, sia associata ad una riduzione dei MACE, soprattutto per un ridotto tasso di rivascolarizzazioni nel follow-up successivo, in assenza di un chiaro beneficio in termini di sopravvivenza. L’unica eccezione è rappresentata dal paziente in stato di shock cardiogeno, dove la rivascolarizzazione delle lesioni non culprit non è raccomandata (IIIA).

Figura 3

Nello scenario sopra descritto, non vi è tuttavia una chiara posizione da parte delle linee guida, poiché non viene presa in considerazione l’eventualità di due lesioni culprit differenti. Possiamo ipotizzare in questo caso che la vera culprit sia stata la lesione della coronaria di destra: questo primum movens, potrebbe aver favorito il rilascio di citochine pro-infiammatorie, di molecole vasocostrittrici che hanno probabilmente causato l’instabilità di una placca preesistente anche a carico dell’IVA.

Conclusioni

La decisione su scelta dei tempi e modalità del completamento della rivascolarizzazione dipende da numerosi fattori. Il quadro clinico complessivo del paziente (età, funzione ventricolare sinistra, diabete mellito, insufficienza renale cronica, vasculopatia periferica) è sicuramente un elemento cardine nella scelta della strategia terapeutica. Accanto ai dati clinici del paziente è necessario valutare il quadro anatomico da trattare: lesioni semplici vs lesioni complesse; estensione del territorio sotteso alla stenosi; occlusioni acute vs occlusioni croniche. In questo modo, tramite un approccio multiparametrico, è possibile indirizzare il paziente verso la strategia terapeutica di rivascolarizzazione più efficace e sicura.

Arresto Cardiaco da intossicazione da Flecainide

Signoretta Gianluca, Catellani Davide, De Gregorio Mattia, Notarangelo Francesca

Università degli Studi di Parma

Abstract

La flecainide agisce prevalentemente inibendo il canale del sodio voltaggio-dipendente Nav 1.5 e causando un rallentamento della fase di depolarizzazione rapida, corrispondente alla “fase 0” del potenziale d’azione cardiaco. La sua finestra terapeutica è piuttosto ristretta (200-800 μg/L): il suo sovradosaggio può portare a tachicardia/fibrillazione ventricolare o ad un rallentamento della conduzione atrioventricolare di varia gravità, fino anche all’asistolia. In corso di intossicazione da flecainide, acquista vitale importanza stabilizzare il paziente mediante somministrazione di sodio bicarbonato 8.4% per via endovenosa, garantendo generalmente una rapida normalizzazione del tracciato ECG e la conseguente stabilizzazione  emodinamica.

Introduzione

La flecainide acetato, antiaritmico di classe IC, esercita il suo principale effetto farmacologico come potente inibitore del canale del sodio voltaggio-dipendente noto come Nav 1.5,  codificato dal gene SCN5A e presente quasi esclusivamente a livello dei cardiomiociti. La flecainide va a legarsi alla proteina transmembrana trascritta da SCN5A e ne rallenta il passaggio dalla conformazione inattivata alla forma chiusa, diminuendo pertanto l’afflusso intracellulare di sodio. Si verifica di conseguenza un rallentamento della fase di depolarizzazione rapida, corrispondente alla “fase 0” del potenziale d’azione cardiaco. [1]

La flecainide è attualmente disponibile in tre diverse formulazioni: due orali (una a rilascio immediato e una a rilascio prolungato) e una endovenosa. [2]

Benché sia stata originariamente approvata per la prevenzione e la soppressione di aritmie ventricolari potenzialmente mortali, attualmente la principale indicazione clinica della flecainide è costituita dalla cardioversione farmacologica della FA parossistica o persistente in cuori esenti da patologia strutturale. L’interruzione dei circuiti di rientro a livello atriale avviene grazie alla riduzione del potenziale d’azione e all’aumento del periodo refrattario dei miociti atriali. [1;3]

La flecainide ha una finestra terapeutica piuttosto ristretta (200-800 μg/L) e il suo sovradosaggio può portare a tachicardia/fibrillazione ventricolare o ad un rallentamento della conduzione atrioventricolare di varia gravità, fino anche all’asistolia. [3] Sono state descritte  due diverse morfologie di TV: a) a blocco di branca destra con QRS <200 ms, con onde P visibili e QTc non significativamente allungato b) a blocco di branca sinistra con QRS>200 ms, con assenza di onde P e con QTc prolungato. I decessi da intossicazione di flecainide descritti finora in letteratura presentavano esclusivamente quest’ultimo pattern [4;5].

Caso Clinico

Presentiamo il caso di una signora di 80 anni (M.C.) trasportata in regime di emergenza presso il nostro laboratorio di emodinamica dopo ROSC in ACC da multipli episodi di tachicardia a complessi larghi esorditi con sincope e riferito dolore toracico (Figura 1).  

Figura 1: ECG teletrasmesso. Tachicardia a complessi larghi

Per numerose recidive di tachicardia a complessi larghi durante il trasporto si rendeva necessario sedare ed intubare la paziente per erogare gli shock esterni. In tali circostanze la paziente entrava in emodinamica in condizioni di stabilità emodinamica.

L’ECG di base mostrava una FA a medio-bassa risposta ventricolare alternata a lunghe fasi di ritmo idioventricolare con importante slargamento del QRS senza segni di ischemia acuta in atto (Figura 2).

Dalle poche informazioni fruibili dal punto di vista anamnestico emergeva una storia di cardiopatia in esiti di valvuloplastica mitralica non ulteriormente specificata, una FA cronica in terapia con NAO e recente sostituzione protesica di ginocchio.

Come da protocollo ACLS e vista la peculiarità dell’ECG all’arrivo, si provvedeva ad indagare le cause dell’arresto cardiaco tramite l’algoritmo delle 4I e 4T.

Una veloce obiettività generale rilevava dei vistosi edemi degli arti inferiori con un’asimmetria eclatante del polpaccio sinistro che, insieme alla storia del recente intervento ortopedico, ha portato in prima istanza a sospettare un quadro di TEP.

Si eseguiva pertanto una rapida ecoscopia per ricercare potenziali segni di sovraccarico acuto del VDx o di tamponamento cardiaco.

Figura 2: ECG all’arrivo. Alternanza di FA, ritmo idioventricolare a complessi larghi e tachicardia a complessi larghi

Alla luce del quadro ECG e del riscontro di una significativa dilatazione ventricolare destra, in assenza di effusione pericardica, si soprassedeva all’esecuzione di coronarografia e si inviava la paziente ad esecuzione urgente di Angio-TC polmonare che sorprendentemente mostrava solo un difetto di riempimento segmentario in sede apicale destra, certamente non compatibile con un quadro clinico tanto eclatante. Non venivano riscontrati segni di pneumotorace iperteso.

Gli esami ematochimici mostravano infine solo lieve anemia e disionia con un’ipokaliemia non significativa.

Si procedeva dunque al ricovero in rianimazione COVID per riscontro di tampone positivo per SARS-CoV2 e per il prosieguo della stabilizzazione emodinamica e della ventilazione meccanica.

Il giorno successivo la paziente ha continuato a manifestare un’importante instabilità elettrica con numerosi episodi di tachicardia a complessi larghi, non responsivi alla terapia farmacologica con amiodarone e lidocaina, ma trattati efficacemente con CVE.

Da una più accurata ricostruzione anamnestica emergeva una terapia domiciliare in cronico con flecainide in formulazione a rilascio prolungato con posologia overdosata (150mg x2/die) che la paziente aveva recentemente introdotto in terapia.

A questo possiamo aggiungere il riscontro di una funzionalità renale severamente ridotta di nuovo riscontro, con creatininemia pari a 1.8 mg/dl (eGFR 30 ml/min), causante di conseguenza un allungamento dell’emivita del farmaco a circa 60-70 ore.  All’emogasanalisi si determinava inoltre una severa acidosi metabolica (pH 7.26).

In considerazione della terapia domiciliare, della funzionalità renale ridotta, della morfologia elettrocardiografica degli eventi aritmici e dello slargamento persistente del complesso QRS, nonché della mancata risposta alla terapia con lidocaina, si ipotizzava la diagnosi di tachicardia a complessi larghi da accumulo di flecainide. Alla luce di questo sospetto clinico e degli episodi aritmici recidivanti ed emodinamicamente significativi, si indicava somministrazione di sodio bicarbonato 30 mEq in bolo + 50 mEq in infusione in 12 h (da ripetere al termine), calcio gluconato 2 fl 1 g/ 10 ml (10%). In seguito ad ogni CVE delle tachicardie a complessi larghi, si riscontrava elettrocardiograficamente FA a bassa risposta ventricolare (compresa tra i 30-45 bpm) con QRS largo in un quadro di già labile compenso emodinamico (Figura 3). La paziente veniva quindi portata in sala di emodinamica per procedere al posizionamento di un PM temporaneo: durante la procedura si segnala l’insorgenza di ulteriori 4 episodi aritmici trattati ciascuno efficacemente con shock CVE a 150 J.

A 36 h di distanza dalla precedente, veniva nuovamente eseguita valutazione cardiologica della paziente, la quale si presentava oramai libera da nuovi episodi tachiaritmici. Non si documentavano interventi del PM temporaneo e si procedeva pertanto alla rimozione del dispositivo di stimolazione cardiaca.

Figura 3. FA a medio-bassa risposta ventricolare e a complessi larghi

All’elettrocardiogramma di superficie si riscontrava FA a medio-alta risposta ventricolare con progressivo restringimento dei complessi QRS, segno di una riduzione dell’effetto generato dall’intossicazione da flecainide.

Durante la successiva degenza in rianimazione si procedeva a weaning respiratorio fino a progressiva estubazione della paziente. Si rendeva però necessario il posizionamento di un drenaggio toracico destro per evidenza alla TC torace di un abbondante versamento pleurico con completa atelettasia del lobo inferiore omolaterale e parziale atelettasia del lobo medio associato a versamento pleurico saccato in sede anteriore, verosimilmente ematico, senza segni di sanguinamento attivo. 

Alla luce del miglioramento clinico/radiologico dopo rimozione del drenaggio e sospensione dell’O2 terapia, si procedeva a trasferimento in cardiologia, dove si rendeva però necessario somministrare terapia diuretica a boli e reintraprendere la ventilazione con ossigeno  a seguito di un’improvvisa riacutizzazione del quadro clinico.  Una buona risposta diuretica e un progressivo miglioramento degli scambi gassosi hanno però permesso il passaggio definitivo della paziente all’aria ambiente.

La paziente veniva infine trasferita presso altro centro per l’esecuzione di cicli di riabilitazione.  La prescrizione terapeutica finale comprendeva: terapia anticoagulante (con Dabigatran 110 mg x 2/die), betabloccante (con metoprololo 100 mg 1 cp ore 8 e ½ cp ore 20), diuretica (furosemide 100 mg 1 cp ore 8 e ½ cp ore 20 + canreonato di K+ 50 mg/die) e ipolipemizzante.

DISCUSSIONE

Non esistendo uno specifico antidoto, l’approccio terapeutico da seguire in caso di intossicazione da flecainide ruota attorno a tre cardini: a) ridurre l’assorbimento gastrointestinale del farmaco, generalmente tramite carbone attivo b) garantire la stabilità emodinamica del paziente c) antagonizzare l’effetto della molecola già in circolo.

L’uso di sodio bicarbonato 8.4% per via endovenosa garantisce generalmente una rapida normalizzazione del tracciato ECG e la conseguente stabilizzazione  emodinamica, con meccanismo tuttavia poco chiaro. Si ipotizza che la molecola agisca in almeno due modi: spiazzando la flecainide dal suo recettore e diminuendo l’attività di quella ad esso ancora legata mediante alcalinizzazione del pH ematico.  L’utilizzo di emulsioni lipidiche è invece meno comune. [3]

BIBLIOGRAFIA

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Interruzione dell’arco aortico: riscontro incidentale in una paziente sottoposta ad angioplastica coronarica

Giuseppe Vadalà1, Davide Diana2,3, Giovanni Diana2, Daniele Adorno3, Giovanni Ferraiuoli3, Luca Di Fazio3, Benjamin De Ornelas3, Vincenzo Sucato1,3, Egle Corrado1,3, Giuseppina Novo1,3 e Alfredo Ruggero Galassi1,3.

  1. Dipartimento di Cardiologia, Ospedale Universitario Paolo Giaccone, Palermo.
  2. Dipartimento di Cardiologia, Ospedale San Giovanni di Dio, Agrigento.
  3. Dipartimento ProMISE, Università di Palermo.

Abstract

L’interruzione dell’arco aortico è una rarissima anomalia congenita definita come la più estrema forma di coartazione aortica ed associata a elevatissima mortalità infantile quando non corretta mediante chirurgia.

Figura 1: Nel tipo A, l’interruzione si verifica distalmente all’origine dell’arteria succlavia sinistra. Nel tipo B, l’interruzione si verifica tra l’origine dell’arteria carotide comune di sinistra e l’arteria succlavia sinistra. Nel tipo C, l’interruzione si verifica prossimalmente all’origine dell’arteria carotide comune di sinistra.

Il suo riscontro negli adulti è aneddotico e possibile soltanto grazie allo sviluppo di sistemi collettori arteriosi che consentono di oltrepassare l’ostruzione ma rappresentano una sfida nelle procedure di interventistica coronarica percutanea.

Descriviamo il caso occorso ad una donna di 58 anni ammessa per NSTEMI e sottoposta ad angioplastica coronarica percutanea in cui è stata riscontrata l’interruzione dell’arco aortico. L’Angio-TC, mediante tecniche avanzate di Riformattazione Multiplanare e Volume-rendering, ha disegnato dettagliatamente la tortuosa anatomia dei vasi collaterali collettori arteriosi.

Introduzione

L’interruzione dell’arco aortico è una rarissima anomalia congenita con prevalenza pari a tre soggetti per milione di nati vivi. È annoverata tra le cause di cianosi nei neonati ed è definita come la più estrema forma di coartazione aortica. Quando non sottoposta a trattamento, esclusivamente chirurgico, questa condizione è associata ad una mortalità superiore al 90% ad un anno (1). L’interruzione usualmente si verifica tra la arteria carotide comune di sinistra e la arteria succlavia sinistra (> 50%, tipo B) ma può anche riscontrarsi distalmente all’origine dell’arteria succlavia sinistra (40%, tipo A) o tra l’arteria anonima e l’arteria carotide comune di sinistra (5%, tipo C) (figura 1), e di solito si associa ad ampi e non restrittivi difetti del setto interventricolari e a shunt destro-sinistro mediante la pervietà del dotto arterioso che termina a valle dell’ostruzione. Il suo riscontro negli adulti affetti da aterosclerosi coronarica è aneddotico e possibile soltanto grazie allo sviluppo di sistemi collettori arteriosi che, bypassando l’interruzione, riforniscono di sangue ossigenato la parte inferiore del corpo.

Ove necessario, questa condizione renderebbe molto complesse eventuali procedure di intervento percutaneo coronarico, soprattutto nel setting emergenziale e nei casi in cui la anomalia non sia precedentemente nota. Per quanto a noi risulta, in Letteratura è stato riportato soltanto un caso di interruzione dell’arco aortico nel contesto di una Sindrome Coronarica Acuta (2).

Caso Clinico

Descriviamo un caso occorso presso il nostro Centro che riguarda una donna di 58 anni ammessa per infarto miocardico senza sopraslivellamento del segmento ST (NSTEMI). La sua anamnesi patologica era muta per patologie di rilievo e la paziente riferiva di non assumere farmaci al domicilio.

Figura 2 A-B: Angiografia a Sottrazione Digitale (DSA). A. Connettori vascolari tortuosi tra l’Arteria Succlavia Destra e l’Aorta Discendente. B. Occlusione dell’Aorta discendente distalmente all’origine dell’Arteria Succlavia sinistra. C: L’angiografia coronarica mostra una stenosi critica a livello della arteria coronaria destra (freccia bianca). D: Il risultato finale dopo l’angioplastica coronarica con inserimento dello stent. E-F: L’angio-TC con Riformattazione Multiplanare (MPR: Multi Planar Reformatting o Reconstruction) mostra l’occlusione dell’Arco Aortico dopo l’origine dell’Arteria (E) el’Angio-TC con Riformattazione Multiplanare che mostra l’ipertrofia del ventricolo sinistro (F). G-H: Angio-TC con ricostruzione volume-rendering: la proiezione latero-laterale mostra l’interruzione dell’arco aortico, distalmente all’origine dell’arteria succlavia sinistra (G); la proiezione antero-posteriore mostra la tortuosità dei vasi connettori arteriosi che decorrono in rapporto con la colonna vertebrale ed originano da entrambe le arterie succlavie terminando nell’aorta discendente (H).

La paziente è stata sottoposta ad angiografia coronarica in regime di urgenza. L’accesso arterioso radiale destro non è stato percorribile per via dell’elevata tortuosità dei vasi arteriosi a livello succlavio. E’ stata pertanto eseguita l’Angiografia a Sottrazione Digitale (DSA) dell’aorta per via arteriosa radiale sinistra che ha mostrato l’interruzione dell’arco aortico distalmente all’origine della arteria succlavia sinistra (figura 2 A-B).

L’angiografia coronarica, pertanto, è stata eseguita per via radiale sinistra e successivamente e ha mostrato malattia aterosclerotica con stenosi emodinamicamente significativa nel segmento prossimale dell’arteria coronaria destra (vaso culprit). Per questo motivo, è stata effettuata l’angioplastica coronarica percutanea della arteria coronaria destra con inserimento di uno stent medicato nel tratto prossimale con buon risultato angiografico finale (figura 2 C-D). Al fine di approfondire l’anatomia vascolare, è stata eseguita l’Angio-TC mediante tecniche di Riformattazione Multiplanare (MPR: Multi Planar Reformatting o Reconstruction) e volume-rendering che ha confermato l’interruzione dell’arco aortico di tipo A e ha mostrato nel dettaglio la tortuosità dei vasi collaterali collettori arteriosi tra le arterie succlavie e l’aorta nel tratto discendente (figura 2 E-G-H).

È stata anche dimostrata la presenza di ipertrofia del ventricolo sinistro (figura 2 F) e non è stata riscontrata la presenza di difetti del setto interventricolare.

Conclusioni

L’interruzione dell’arco aortico, oltre a rappresentare una importante causa di mortalità in età infantile, può rappresentare una sfida nelle procedure di interventistica coronarica percutanea nei soggetti adulti. L’utilizzo di moderni software di imaging consente una ottimale definizione anatomica vascolare.

 

 

Bibliografia

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Figure-1-

Impact of secondary prevention medical therapies on outcomes of patients suffering from Myocardial Infarction with NonObstructive Coronary Artery disease (MINOCA): a meta-analysis.

 Impact of secondary prevention medical therapies on outcomes of patients suffering from Myocardial Infarction with NonObstructive Coronary Artery disease (MINOCA): a meta-analysis.

Ovidio De Filippo MD1, Caterina Russo MD1, Rossella Manai MD1, Irene Borzillo MD1, Federica Savoca MD1, Guglielmo Gallone MD1, Francesco BrunoMD1, Mahmood Ahmad2 MD, Gaetano Maria De Ferrari Prof 1, Fabrizio D’Ascenzo MD Ph.D.1

Cardiovascular and thoracic department, A.O.U. Città della Salute e della Scienza, Turin, Italy and Department of Medical Sciences, University of Turin, Italy

Abstract

Lo scopo dello studio è valutare l’impatto delle terapie mediche di prevenzione secondaria (statine, ACE-inibitori/bloccanti dei recettori dell’angiotensina (ARB), beta-bloccanti (BB) e doppia terapia antipiastrinica (DAPT)) nei pazienti con diagnosi di MINOCA.

I dati provenienti dai cinque studi osservazionali suggeriscono che beta-bloccanti, statine e DAPT siano associati a un beneficio di sopravvivenza nei pazienti con MINOCA (HR 0,60:0,45-0,81, p<0,001, HR0,81:0,66-0,99, p=0,04 e HR0,73:0,55-0,98, rispettivamente per le statine, beta bloccanti e DAPT). Gli ACE-inibitori/ARB comportano un rischio ridotto di MACE (HR 0,65:0,44-0,94, p=0,02, tutti IC 95%). Nessuna delle terapie di prevenzione secondaria studiate è associata a un rischio ridotto di IMA.

Commento

I MINOCA rappresentano dal 2 al 6% di tutti gli infarti miocardici (1,2).  I criteri diagnostici includono l’assenza di evidenza di ostruzione coronarica angiografica (cioè stenosi coronarica <50%) e di una diagnosi alternativa clinicamente evidente per la presentazione acuta (es. sepsi, embolia polmonare, ecc.) (3). Pertanto, possono essere inclusi sia i pazienti con arterie coronarie normali (nessuna stenosi > 30%) che quelli con lieve ateromasia coronarica (stenosi >30% ma <50%). In questo contesto, a causa delle incertezze nella fisiopatologia sottostante e della diagnosi, l’impiego di adeguate terapie mediche di prevenzione secondaria rappresenta una questione rilevante e indeterminata.

Il presente studio è la prima metanalisi che include i dati di tutti gli studi osservazionali pubblicati in merito alla terapia dei MINOCA.  Sono state eseguite ricerche per identificare tutti gli RCT e studi osservazionali che valutassero l’impatto degli ACE inibitori, degli ARB, dei beta-bloccanti, delle statine e della DAPT sugli outcome di interesse nei pazienti ammessi con diagnosi di MINOCA.  L’endpoint primario è la mortalià per tutte le cause, endpoint secondari sono i MACE (major adverse cardiovascular events) e l’IMA (infarto miocardico acuto). Gli studi osservazionali individuati sono cinque: Paolisso et al, Lindahl B et al, Ciliberti G et al, Choo EH, Abdu FA et al (4, 5, 6, 7, 8) le cui caratteristiche sono sintetizzate nella tabella 1.

I principali risultati possono essere così riassunti:

– Statine, beta-bloccanti e DAPT sono associati a una significativa riduzione dei decessi per tutte le cause al follow-up a medio termine (HR 0,81, IC 95% 0,66-0,99, p=0,04, HR 0,60, 95% CI 0,45-0,81, p<0,001, (HR 0,73, IC 95% 0,55-0,98, p=0,03 rispettivamente statine beta-bloccanti e DAPT) (Figura 1).

– Gli ACE-inibitori/ARBs forniscono un effetto benefico sulla riduzione dei MACE (HR 0,53, IC 95% 0,28-0,98, p=0,04) (Figura 2).

– Non è stata osservata alcuna associazione significativa tra beta-bloccanti, ACE-inibitori/ARB, statine e IMA (HR 0,48 IC 95% 0,12-1,87; HR IC 95% 0,83, 0,67-1,03, e HR: 0,88, IC 95% 0,68-1,14, rispettivamente; tutti p-value non significativi) (Figura 3).

Quale terapia dunque per i pazienti con diagnosi di MINOCA?

L’attuale generazione di cardiologi è cresciuta apprendendo che MINOCA è una “diagnosi funzionante” che dovrebbe essere utilizzata solo come definizione temporanea durante l’esecuzione di un lavoro diagnostico completo, mirando sia a escludere cause non ischemiche di danno miocardico sia a rilevare con precisione il processo ischemico che sottende l’infarto del miocardio. Ciò ha progressivamente aumentato l’importanza della RMN come punto di svolta per identificare un pattern ischemico di danno miocardico e la necessità di un accurato imaging intracoronarico o test di vasoreattività/valutazione fisiologica per rilevare processi aterotrombotici, disfunzione microvascolare o spasmo coronarico. Idealmente, l’etichetta MINOCA non sarà più necessaria in futuro, poiché ogni paziente ricoverato per infarto miocardico acuto e senza malattia coronarica ostruttiva riceverà una corretta diagnosi che tenga conto dell’evento ischemico. Ciò includerà ragionevolmente una terapia mirata all’eziopatologia sottostante. Tuttavia, prove di real life evidenziano un sostanziale sottoutilizzo della RMN e dei test coronarici invasivi a causa della disponibilità limitata e dello sfavorevole rapporto costo/efficacia. Di conseguenza, molti pazienti vengono trattati su basi empiriche.

Sebbene siano stati inclusi solo studi osservazionali e siano necessari studi randomizzati controllati per confermare quanto abbiamo trovato (attualmente è in corso il MINOCA bat trial che valuta l’impatto di beta-bloccanti, ACE inibitori e ARBs nei pazienti con MINOCA) (9), riteniamo che i risultati di questa metanalisi possano essere un valido ausilio nell’ indirizzare il clinico nell’utilizzo di una terapia cardioprotettiva empirica nei pazienti dimessi con diagnosi di MINOCA.

Legend: ACE-i: angiotensin converting enzyme inhibitors; ARB: angiotensin receptor blockers; MINOCA: myocardial infarction with nonobstructive coronary artery disease; AMI: acute myocardial infarction; MACE: major adverse cardiovascular events; ACS: acute coronary syndrome.

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Figure-2

Beta-blockers are associated with better long-term survival in patients with Tako- Tsubo syndrome

Angelo Silverioa, Guido Parodib, Fernando Scudieroc, Eduardo Bossoned, Marco Di Maioa, Olga Vrize,f, Michele Bellinog, Concetta Zitoh, Gennaro Provenzag, Ilaria Radanog, Cesare Baldig, Antonello D’Andreai, Giuseppina Novoj, Ciro Maurod, Fausto Rigok, Pasquale Innellil, Jorge Salerno-Uriartem, Matteo Camelin, Carmine Vecchionea,o, Francesco Antonini-Canterinp, Gennaro Galassoa, Rodolfo Citrog,o.

a Department of Medicine, Surgery and Dentistry, University of Salerno, Baronissi, Salerno, Italy

b Department of Cardiology, ASL4 Liguria, Lavagna, Italy

c Cardiology Unit, Health Authority Bergamo East, Italy

d Division of Cardiology, Antonio Cardarelli Hospital, Naples, Italy

e King Faisal Specialist Hospital and Research Center, Riyadh, Saudi Arabia

f College of Medicine, Al Faisal University, Riyadh, Saudi Arabia

g Division of Cardiology, Cardiovascular and Thoracic Department, San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona University Hospital, Salerno, Italy

h Department of Clinical and Experimental Medicine, Section of Cardiology, University of Messina, University Hospital “Policlinico G. Martino”, Messina, Italy

i Department of Cardiology and Intensive Coronary Unit, “Umberto I” Hospital, Nocera Inferiore (Salerno), Italy

j Biomedical Department of Internal Medicine and Medical Specialties, Cardiology Unit, University of Palermo, Palermo, Italy

k Cardiology Department, Ospedale dell’Angelo Mestre-Venice, Venice, Italy

l Department of Cardiovascular Imaging, San Carlo Hospital, Potenza, Italy

m University of Insubria, Varese, Italy

n Division of Cardiology, Department of Medical Biotechnologies, University of Siena, Siena, Italy

o Vascular Physiopathology Unit, IRCCS Neuromed, Pozzilli, Italy

p Cardiology Unit, High Specialization Rehabilitation Hospital Motta di Livenza, Motta di Livenza, Treviso, Italy

INTRODUCTION

Although Tako-Tsubo syndrome (TTS) is generally considered a benign disease, recent evidence from large-scale registries has demonstrated a substantial morbidity and mortality during follow-up.[1, 2]

Supraphysiological serum levels of catecholamines have been reported in TTS [3, 4, 5] and could influence patients’ clinical outcome not only during the hospitalization but also at long term. On this basis, the use of beta-blockers has been proposed to mitigate the sympathetic drive, blunt the effects of further catecholamines’ surge, and avoid their potentially detrimental effect after the acute phase.However, to date the long-term prognostic benefits of beta-blockers has not been proven in TTS.[6, 7]

The aim of the present study was to investigate the impact of beta-blockers therapy on long-term outcomes of patients with TTS by using the information prospectively collected in the Tako-Tsubo Italian Network Registry.

RESULTS

The study population included 825 patients with TTS diagnosis; 488 (59.2%) were discharged on beta-blockers, and 337 (40.8%) without beta-blockers. The median age was 72.0 (63.0-78.0) years and 91.9 % were females.

The prescription of beta-blockers at discharge was prevalent in patients with CAD (p=0.042) and in patients presenting with chest pain (p<0.001), while was lower in patients with COPD (p=0.029). No differences between groups were observed in terms of in-hospital complications.

The median follow-up time was 24 months. The Kaplan-Meier analysis showed a significantly higher survival free from all-cause death (Log-Rank=0.004) and from non-cardiac death (Log-Rank=0.006) in patients treated with beta-blockers (Figure 1). Survival free from TTS recurrence and from cardiac death was not statistically different between groups.

The propensity score–weighted adjusted regression analysis confirmed the significantly lower risk of all-cause death (adjusted HR:0.56; 95%CI:0.36-0.89) and non-cardiac death (adjusted HR:0.56; 95%CI:0.31-0.89) in patients treated vs. those not treated with beta-blockers, and no difference for TTS recurrence and cardiac death between groups (Figure 2).

The effect of beta-blocker treatment on all-cause mortality was consistent among the prespecified subgroups of interest except for hypertension and cardiogenic shock (Figure 3). The survival effect of beta-blockers was higher in patients with hypertension, with a significant subgroup interaction (pinteraction=0.014). The survival benefit of beta-blockers was also higher among patients who developed cardiogenic shock during the acute phase than in those who did not (pinteraction=0.047).

DISCUSSION AND CONCLUSIONS

The TTS pathophysiology seems to reflects the cardiovascular response to sudden raise in serum catecholamine concentrations, often in the context of acute emotional or physical stressful events.[3] In patients recovering and being discharged after the index event, long-term treatment with beta-blockers might reduce the sympathetic overdrive and the risk of adverse events at long term.

The main findings of this real-world multicenter study can be summarized as follows:

i) Beta-blockers were prescribed in about 60% of TTS patients at discharge;

ii) Beta-blocker treatment was associated with lower risk of overall mortality at long-term follow-up;

iii) the beneficial effect of beta-blockers on overall survival was significantly higher in patients with hypertension and in those who developed cardiogenic shock during the acute phase.

This observational study reports in a large multicenter real-world population the association of beta-blocker treatment with higher survival and identified specific categories of patients where the use of beta-blockers appears particularly advantageous, such as in TTS patients with hypertension and in those who developed cardiogenic shock during the acute phase.

Although needing confirmation by randomized clinical studies, these findings could have important implications for a more rationale use of beta-blockers in the long-term management of TTS patients.

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FIGURE LEGENDS

Figure 1. Kaplan-Meier curves for survival free from all-cause death (A), TTS recurrence (B), cardiac death (C), and non-cardiac death (D) in patients treated or not with beta-blockers at long-term follow-up.

aHR, adjusted hazard ratio; BB, beta-blockers; CI, confidence interval; HR, hazard ratio; TTS, takotsubo syndrome.

Figure 2. Study selection process and adjusted Cox regression analysis.

aHR, adjusted hazard ratio; BB, beta-blockers; CI, confidence interval; HR, hazard ratio; TIN, Takotsubo Italian Network; TTS, takotsubo syndrome.

Figure 3. Subgroup analysis for the risk of the primary outcome in patients treated or not with beta-blockers.

BB, beta-blockers; CAD, coronary artery disease; CI, confidence interval; CS, cardiogenic shock; HR, hazard ratio, TTS, takotsubo syndrome.

aHR, adjusted hazard ratio; BB, beta-blockers; CI, confidence interval; HR, hazard ratio; TTS, takotsubo syndrome.

The p-value expresses the statistical heterogeneity of the beta-blocker treatment effectiveness between the subgroups of interest.