FIg-1

Transvenous extraction of left bundle branch pacing lead: a safe procedure?

Raimondo Pittorru1, Pietro Bernardo Dall’Aglio1, Pasquale Valerio Falzone1, Vittorio Zuccarelli1, Enrico Fantini1, Michelangelo Siliberti1, Michele Nori1, Patrizia Aruta1, Antonella Cecchetto1, Domenico Catanzariti2, Gino Gerosa1, Federico Migliore1.

1Dipartimento di Scienze Cardio-Toraco-Vascolari, Università degli Studi di Padova

2Divisione di Cardiologia, Ospedale Santa Maria del Carmine, Rovereto

Abstract: La stimolazione della branca sinistra sta emergendo come una modalità di stimolazione del sistema di conduzione alternativa a quella hissiana grazie alla sua capacità di garantire soglie basse e stabili. Tuttavia i dati sulle complicanze a medio/lungo termine e sulla sicurezza di un’eventuale estrazione sono limitati. Riportiamo il caso di una giovane ragazza, affetta da scompenso cardiaco in un quadro di cardiomiopatia dilatativa con severa disfunzione biventricolare, sottoposta ad estrazione transvenosa di elettrocateteri per insufficienza tricuspidale dieci mesi dopo l’impianto.

Caso clinico: Una donna di 28 anni, affetta da cardiomiopatia dilatativa con severa disfunzione biventricolare, veniva sottoposta a terapia di resincronizzazione mediante pacing di branca sinistra come alternativa alla terapia convenzionale nel gennaio 2020. La stimolazione della branca sinistra veniva effettuata mediante utilizzo del catetere SelectSecure 3830, 69cm (Medtronic Inc., Minneapolis, MN, USA) attraverso approccio transettale ventricolare. Il catetere veniva posizionato nel setto muscolare a circa 2 cm dalla regione hissiana (figura 1 A-B). Venivano inoltre posizionati un elettrocatetere atriale passivo ed un ICD single-coil attivo in sede apicale per la prevenzione della morte cardiaca improvvisa, vista la giovane età. Dopo alcuni mesi, nonostante l’introduzione di terapia medica ottimizzata, andava incontro ad un sensibile peggioramento dello scompenso cardiaco clinicamente destro caratterizzato da edemi declivi, turgore giugulare ed ascite complicata da episodi ricorrenti di peritonite batterica spontanea. Giungeva alla nostra attenzione 10 mesi dopo l’impianto per approfondimento del quadro clinico. L’ecocardiogramma mostrava una severa dilatazione del ventricolo sinistro (VTDi 100ml/mq) con una frazione di eiezione moderatamente ridotta (FE 36%) in presenza di ipocinesia diffusa. Si documentava inoltre un’insufficienza tricuspidale severa che riconosceva un meccanismo misto: dilatazione dell’annulus e mal-coaptazione dei lembi posteriore e settale per interferenza degli elettrocateteri (figura 1C). Dopo valutazione multidisciplinare, si condivideva di trattare l’insufficienza tricuspidale mediante rimozione transvenosa degli elettrocateteri. La procedura veniva eseguita in sala ibrida mediante guida ecocardiografica transesofagea. L’elettrocatetere dell’ICD veniva rimosso mediante trazione manuale con utilizzo di stiletto autobloccante. L’elettrocatetere da pacing di branca sinistra veniva rimosso mediante trazione manuale applicando fini movimenti bidirezionali sotto guida ecocardiografia transesofagea (figura 1D). Infine l’elettrocatetere atriale veniva estratto tramite sheat meccanica rotazionale (Cook Medical, Evolution RL). Si otteneva quindi un successo procedurale completo. Ai parametri ecocardiografici intra-operatori non si documentava nessuno shunt interventricolare in sede di applicazione dell’elettrocatetere per la branca sinistra (figura 1E); era invece apprezzabile un miglioramento dell’insufficienza tricuspidale. La paziente andava incontro, tuttavia, a scompenso cardiaco avanzato, refrattario alla terapia medica con peggioramento dell’insufficienza tricuspidale e veniva, infine, sottoposta a trapianto cardiaco.

Modified by F.Migliore et al, EuroPace. 2021 Dec 7;23(12):1921

Figura: Ecocardiogramma 4-camere dove si vede il catetere LBBP a livello del setto interventricolare (A). Ventricolografia destra che mostra gli elettrocateteri e l’insufficienza tricuspidale severa (B). Ecocardiogramma transesofageo (ETE) intraprocedurale che documenta l’insufficienza tricuspidale severa legata agli elettrocateteri (C). Fluoroscopia intraprocedurale che mostra la rimozione del catetere da stimolazione della branca sinistra mediante trazione manuale (D). ETE post-procedurale che non evidenzia shunt residui a livello del setto interventricolare (E). Il catetere da stimolazione della branca sinistra rimosso che non presenta fibrosi nella tip distale (F).

Discussione: Gli elementi sui quali si incentra la discussione sono sostanzialmente tre: il ruolo della stimolazione di branca sinistra (LBBP) oggigiorno; l’originalità del caso che prevede la rimozione del catetere deputato alla stimolazione della branca sinistra dopo dieci mesi; l’insufficienza tricuspidale secondaria anche all’interferenza degli elettrocateteri. Nel panorama elettrofisiologico la stimolazione hissiana, che ha come target la stimolazione del sistema di conduzione cardiaco nativo, è un pacing fisiologico accettato. Tuttavia, ha alcune limitazioni, fra le quali la difficoltà operativa ed il raggiungimento di soglie di pacing più elevate. Recentemente la stimolazione della branca sinistra attraverso un approccio trans-settale ventricolare è emerso come un’alternativa di stimolazione fisiologica e per la correzione del blocco di branca, con una soglia di cattura più bassa e stabile e una durata del QRS relativamente stretta grazie alla rapida attivazione ventricolare sinistra.

La necessità di penetrazione dell’elettrocatetere all’interno del setto interventricolare per il reclutamento della branca sinistra desta preoccupazioni circa la sicurezza ed efficacia dell’estrazione qualora si rendesse necessaria in futuro. Una delle preoccupazioni è l’impossibilità di introdurre uno stiletto all’interno del lume di questi elettrocateteri necessario per garantire una trazione efficace durante la procedura di estrazione. E’ noto che la presenza di più elettrocateteri possa impedire una corretta coaptazione dei lembi della valvola tricuspide determinando un’insufficienza anche rilevante. Il caso clinico offre a considerare che l’insufficienza tricuspidale può essere non soltanto una complicanza dell’estrazione ma essere causata dall’interferenza degli elettrocateteri.

Conclusioni: Il nostro caso clinico dimostra che la rimozione transvenosa dell’elettrocatetere deputato alla stimolazione della branca sinistra sembra essere sicura ed efficace anche dopo dieci mesi, senza evidenza di shunt residuo a livello del setto interventricolare. Questo rappresenta il caso clinico con durata di permanenza di elettrocatetere (dwelling-time) da stimolazione della branca sinistra più lungo riportato in letteratura. In futuro, bisognerà raccogliere maggiori dati circa la sua fattibilità tecnica, considerando anche la loro peculiarità e la corretta sequenza di estrazione in caso di presenza di più elettrocateteri.

caso clinico

Figura2

Un caso atipico di flutter atriale tipico: quando il substrato è più complesso dell’atteso.

Federico Blasi, MD a,b, Jacopo Marazzato, MD a,b, Michele Golino, MD a,b, Carlo Arnò, MD a, b, Manola Vilotta, EP Tech a, Lorenzo Adriano Doni, MD a, Raffaella Marazzi, MD a, Roberto De Ponti, MD, FHRS a,b,.

a Department of Heart and Vessels, Ospedale di Circolo, Viale Borri, 57, Varese 21100, Italy; b Department of Medicine and Surgery, University of Insubria, Viale Guicciardini, 9, Varese 21100, Italy.

Abstract:

Le aritmie atriali nel contesto di cardiopatie congenite corrette chirurgicamente possono nascondere substrati aritmici più complessi di quanto atteso, che vanno accuratamente valutati da un punto di vista clinico ed interventistico. Riportiamo il caso di una paziente di 51 anni nata con un quadro di Tetralogia di Fallot, giunta alla nostra attenzione per un quadro di tachicardia sopraventricolare, in cui lo studio elettrofisiologico comprensivo di un accurato mappaggio elettroanatomico ha consentito la corretta definizione dell’aritmia sottostante con conseguente trattamento definitivo del substrato aritmico.

Introduzione:

Nel corso degli anni, le tecniche di ablazione per il flutter atriale tipico comune (FLATC) sono migliorate al punto che l’ablazione dell’istmo cavo-tricuspidalico (ICT) è attualmente considerata la terapia di scelta in questa aritmia. Infatti, la percentuale di successo dopo una singola procedura è riportata in letteratura pari al 91,7%, con un tasso di complicanze inferiore allo 0,5%. 1

Tuttavia, alcune situazioni particolari possono inficiare l’efficacia e la sicurezza di questa procedura.

Spesso è possibile riconoscere le procedure che presenteranno possibili difficoltà grazie ad elementi presenti all’ECG di base, come un ciclo più lungo, o ad un contesto particolare, come una storia di intervento cardiochirurgico e/o cardiopatie congenite.

Caso Clinico:

Nel 2019, una donna di 51 anni accedeva in Pronto Soccorso con un quadro di scompenso cardiaco e cardiopalmo. La paziente era nota per Tetralogia di Fallot per cui era stata sottoposta nel 1973 e nel 1981 a correzione chirurgica con infundibolectomia e posizionamento di patch pericardico transanulare, chiusura del difetto del setto interventricolare e posizionamento di una protesi biologica polmonare. Dall’intervento correttivo permane una residua stenosi polmonare, in follow up presso il centro di riferimento.

All’ECG di presentazione in Pronto Soccorso si riscontrava una tachicardia sopraventricolare a 100 bpm, condotta con blocco di branca destra ed emiblocco anteriore sinistro, in assenza di chiare onde P (Figura 1A).

Dopo la somministrazione della terapia per il controllo della frequenza ventricolare, l’ECG mostrava un’aritmia atriale con onde P a morfologia compatibile con un FLATC, con variabile conduzione atrioventricolare (Figura 1B). Vista la persistenza dell’aritmia e della sintomatologia, la Paziente veniva sottoposta a studio elettrofisiologico (SEF) ed eventuale ablazione trans catetere per il ripristino del ritmo sinusale.

Durante il SEF, dopo posizionamento di un catetere decapolare in seno coronarico come repere, è stato eseguito un mappaggio elettroanatomico dell’aritmia in atrio destro, mostrando una vasta area cicatriziale nella zona postero-laterale (zona grigia nel mappaggio elettroanatomico, Figura 2A) e piccole zone cicatriziali sparse a livello dell’ICT.

Dopo ricostruzione del percorso di rientro, si è dimostrato come l’aritmia fosse sostenuta da un macrorientro con orientamento antiorario intorno all’anello tricuspidale, con ciclo di 350 ms e rallentamento a livello del tessuto cicatriziale nell’ICT (Fig. 2A). Questa particolare durata del ciclo favoriva un rapporto di conduzione atrio-ventricolare 1:1, che, associata al disturbo di conduzione, mascherava l’effettiva aritmia all’ECG di presentazione.

Inoltre, grazie all’accurato mappaggio elettroanatomico, si è evidenziata un’area di attivazione relativamente precoce a ore 11 dell’anello tricuspidale, non legata al loop peritricuspidale e fonte di una seconda onda di attivazione (freccia nera Fig. 2A), segno della coesistenza di un secondo substrato fonte di un’aritmia parzialmente soppressa dal flutter in corso.

Pertanto, l’ICT è stato sottoposto ad ablazione con radiofrequenze e successivo blocco della conduzione smascherando, all’interruzione del circuito, una seconda aritmia con ciclo di 360 ms (Fig. 3).

Il mappaggio post-ablazione ha mostrato un’aritmia focale con un’attivazione centrifuga più precoce nella zona identificata già al primo mappaggio in corso di flutter come zona ad attivazione precoce (Fig 2B). Successive applicazioni di radiofrequenze nella zona hanno quindi soppresso efficacemente la tachicardia atriale.

A seguito della procedura descritta la paziente si è mantenuta in ritmo sinusale, stabile e asintomatica per cardiopalmo al follow up a due anni ed è seguita presso il centro di riferimento per dal punto di vistacardiochirurgico per la nota stenosi polmonare.

Discussione:

Oltre alle aritmie da macrorientro come i flutter atriali, anche le tachicardie atriali focali possono essere riscontrate nei pazienti sottoposti ad interventi cardiochirurgici.

Anche se in questa popolazione le aritmie atriali da macrorientro risultano di gran lunga più rappresentate, un meccanismo focale è presente dal 7 al 18% delle aritmie riportate in letteratura2-6.

I siti di origine delle tachicardie atriali focali possono essere in alcuni casi, come quello descritto, molto vicini a vaste zone cicatriziali con bassi potenziali, dove i microrientri possono rappresentare l’origine dell’aritmia.

Nel caso proposto, un’aritmia focale ed un flutter tipico comune coesistevano, come dimostrato dal mappaggio elettroanatomico di propagazione.

Ciò era possibile solo grazie al fatto che il ciclo delle due aritmie risultava molto simile, dato che il FLATC era rallentato dalla zona cicatriziale dell’ICT.

È inoltre interessante notare come la frequenza ventricolare della prima aritmia osservata (Fig 1A), non corrisponda esattamente ad alcun possibile rapporto di conduzione del FLATC con ciclo di 350 ms osservato successivamente. Poiché le aritmie da rientro tendono a mantenere un ciclo stabile a differenza di quelle focali, è possibile che la prima aritmia mostrata in figura 1 possa essere la tachicardia atriale focale riscontrata poi successivamente durante il SEF e che in questo caso le due aritmie si alternassero.

Conclusioni:

Le aritmie atriali in un contesto di cardiopatia congenita corretta chirurgicamente possono nascondere un substrato più complesso di quanto atteso, che va accuratamente valutato da un punto di vista clinico ed interventistico.

In questi casi particolari è pertanto fondamentale eseguire un accurato mappaggio elettroanatomico in modo da consentire un trattamento completo e definitivo del substrato aritmico.

FIGURE:

Fig. 1.  ECG a 12 derivazioni all’ingresso in PS (A) e dopo terapia (B).

Fig. 2: A) Mappa di attivazione elettroanatomica del FLATC in atrio destro in proiezione antero-posteriore. Un singolo loop è evidente a livello peritricuspidalico (frecce bianche). Un’ulteriore zona di attivazione precoce, non compatibile con il loop di rientro, si osserva nella zona antero-laterale alle ore 11 dell’ICT (freccia nera). Le aree grigie identificano zone cicatriziali prive di attività elettrica mentre i punti rosa rappresentano zone con potenziali frammentati.

B) Mappa di attivazione elettroanatomica della tachicardia focale atriale dopo interruzione del FLATC. La zona rossa (freccia nera) identifica la zona di attivazione precoce già evidente in corso di FLATC.

Fig. 3. ECG a 12 derivazioni della tachicardia atriale comparsa dopo blocco della conduzione a livello dell’ICT, con ciclo di 360 ms.

Bibliografia:

  1. Spector P, Reynolds MR, Calkins H, et al. Meta-analysis of ablation of atrial flutter and supraventricular tachycardia. Am J Cardiol 2009;104:671-7.
  2. de Groot NM, Zeppenfeld K, Wijffels MC, et al. Ablation of focal atrial arrhythmia in patients with congenital heart defects after surgery: role of circumscribed areas with heterogeneous conduction. Heart Rhythm 2006;3:526–35.
  3.  Pap R, Koha´ ri M, Makai A, et al. Surgical technique and the mechanism of atrial tachycardia late after open heart surgery. J Interv Card Electrophysiol 2012;35:127–35.
  4. Koha´ ri M, Pap R. Atrial tachycardias occurring late after open heart surgery. Curr Cardiol Rev 2015; 11:134–40.
  5. Moore JP, Gallotti RG, Chiriac A, et al. Catheter ablation of supraventricular tachycardia after tricuspid valve surgery in patients with congenital heart disease: a multicenter comparative study. Heart Rhythm 2020;17:58–65.
  6. Marazzato J, Cappabianca G, Angeli F, et al. Ablation of atrial tachycardia in the setting of prior mitral valve surgery. Minerva Cardiol Angiol 2021;69: 94–101.
FIgura-_1-1

Prevalence and clinical predictors of inappropriate direct oral anticoagulant dosage in octagenarians with atrial fibrillation

Andreina Carbone1 · Francesco Santelli2 · Roberta Bottino1 · Emilio Attena3 · Carmine Mazzone4 · Valentina Parisi5 · Antonello D’Andrea6 · Paolo Golino1 · Gerardo Nigro1 · Vincenzo Russo1

  1. Chair of Cardiology, Department of Translational Medical Sciences, University of Campania “Luigi Vanvitelli”, Monaldi Hospital, Piazzale Ettore Ruggeri, 80131 Naples, Italy
  2. Department of Political Sciences, University of Naples Federico II, Naples, Italy
  3. Department of Cardiology, Health Authority Naples 2 North, Naples, Italy
  4. Cardiovascular Centre, Health Authority, Trieste, Italy
  5. Department of Translational Medical Sciences, University of Naples Federico II, Naples, Italy
  6. Unit of Cardiology and Intensive Coronary Care, Umberto I Hospital, Nocera Inferiore, Italy

ABSTRACT

I DOACs (direct oral anticoagulants) rappresentano la strategia farmacologica di prima linea per la prevenzione dello stroke ischemico in pazienti con fibrillazione atriale (FA) in cui è indicata una terapia anticoagulante orale. La prevalenza della FA aumenta progressivamente con l’età. L’età avanzata rappresenta un fattore predittivo indipendente di outcome avversi nella FA ed è associata sia con una ridotta prescrizione dei DOACs che con dosaggio inappropriato (sovradosaggio e sottodosaggio). Numerosi studi supportano la sicurezza e l’efficacia dei DOACs nella popolazione anziana, evidenziando inoltre una ridotta efficacia del sottodosaggio prescrittivo nella prevenzione degli eventi tromboembolici nella FA [1]. L’obiettivo del presente studio è dunque quello di valutare la prevalenza e i predittori di un inappropriato dosaggio dei DOACs in pazienti con FA e di età > 80 anni.

RISULTATI

Nello studio multicentrico sono stati arruolati 253 pazienti con FA (età media 83 anni; 58% donne). Tra questi, 178 pazienti (71%) assumevano un corretto dosaggio dei DOACs e 75 pazienti (29%) un dosaggio inappropriato (n=19 (25.6%) sovradosaggio; n=56 (74.4%) sottodosaggio). Il sovradosaggio e il sottodosaggio è stato definito come la somministrazione, rispettivamente, di una più bassa o una più alta dose di DOACs rispetto a quella raccomandata nel documento di consensus dell’EHRA [2]. L’analisi per sottogruppi (sovra e sottodosaggio) evidenziava  che il sottodosaggio dei DOACs era indipendentemente associato con il sesso maschile, con la malattia aterosclerotica coronarica (coronary artery disease, CAD) e con elevati valori di BMI (Tabella 1); il sovradosaggio dei DOACs, invece, si associava con età, diabete meillito e pregressi sanguinamenti (Tabella 1). Riguardo gli outcome clinici, il gruppo con sottodosaggio dei DOACs presentava una riduzione significativa della sopravvivenza rispetto al gruppo con appropriato dosaggio durante un follow-up medio di 32 ± 10 mesi (Figura 1). Non sono state riscontrate differenza significative tra i diversi gruppi riguardo l’insorgenza di eventi tromboembolici sistemici o dei sanguinamenti maggiori.

Tabella 1. Variabili predittive di sovra o sottodosaggio dei DOACs nella popolazione oggetto di studio.

Figura 1. Lecurve di Kaplan-Meier confrontano il tasso di sopravvivenza tra i 3 gruppi in studio (appropriato dosaggio, sovradosaggio e sottodosaggio dei NOACs).

COMMENTARY

Studi pregressi comprendenti pazienti affetti da FA di età inferiore, riportavano una prevalenza di sovradosaggio dei DOACs compresa tra 2% e 14% e di sottodosaggio tra il 14% e il 45%. Sugrue et al. [3] evidenziava una associazione tra sottodosaggio prescrittivo dei DOACs e il sesso maschile. Nel registro GARFIELD-AF [4], il sottodosaggio si associava alla presenza di  sindrome coronarica acuta. In linea con l’analisi di Ruiz et al. [5], questo studio ha messo in evidenza che elevati valori di BMI si associavano con sottodosaggio dei DOACs. Tuttavia è necessario considerare che il calcolo del BMI negli over 80 presenta alcuni limiti dovuti alla presenza di sarcopenia e ai possibili diversi cut-off presi in considerazione in questa popolazione [6]. Il diabete mellito si conferma predittore indipendente di sovradosaggio dei DOACs, in accordo con lo studio di Sugrue et al. [3] Questo risultato potrebbe in parte spiegare l’aumentato rischio di eventi ischemici cerebrali evidenziati in pazienti con FA affetti da diabete mellito [7]. Infine, nell’analisi per sottogruppi, anche la presenza di pregressi eventi emorragici era indipendentemente associata con il sovradosaggio dei  DOACs. Il dosaggio inappropriato dei DOACs presenta un importante impatto nella pratica clinica. E’ stato dimostrato, infatti, che un inappropriato sottodosaggio di apixaban si associava con un aumentato tasso di stroke [8], mentre un sovradosaggio dei DOACs si associava a un incremento di mortalità per tutte le cause [9].

In conclusione, i principali risultati dello studio sono i seguenti:

  • Pazienti con FA over 80 affetti diabete mellito o con pregressi eventi emorragici sono a rischio di sovradosaggio dei DOACs.
  • Pazienti  con FA over 80 di sesso maschile, con elevati valori di BMI oppure affetti da CAD sono a rischio di sottodosaggio dei DOACs.
  • Il gruppo con sottodosaggio dei DOACs presentava una riduzione significativa della sopravvivenza rispetto al gruppo con appropriato dosaggio.

BIBLIOGRAFIA

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  2. Steffel J, Verhamme P, Potpara TS, Albaladejo P, Antz M, Desteghe L, Haeusler KG, Oldgren J, Reinecke H, Roldan-Schilling V, Rowell N, Sinnaeve P, Collins R, Camm AJ, Heidbüchel H; ESC Scientific Document Group. The 2018 European Heart Rhythm Association Practical Guide on the use of non-vitamin K antagonist oral anticoagulants in patients with atrial fibrillation. Eur Heart J. 2018 Apr 21;39(16):1330-1393.
  3. Sugrue A, Sanborn D, Amin M et al (2020) Inappropriate dosing of direct oral anticoagulants in patients with atrial fibrillation. Am J Cardiol 2021 Apr 1;144:52-59. 
  4. Camm AJ, Cools F, Virdone S et al (2020) Mortality in patients with atrial fibrillation receiving nonrecommended doses of direct oral anticoagulants. J Am Coll Cardiol 76(12):1425–1436.
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  7. Kreutz R, Camm AJ, Rossing P (2020) Concomitant diabetes with atrial fibrillation and anticoagulation management considerations. Eur Heart J Suppl 22(Suppl O):O78–O86.
  8. Yao X, Shah ND, Sangaralingham LR, Gersh BJ, Noseworthy PA (2017) Non-vitamin K antagonist oral anticoagulant dosing in Cardiol 69(23):2779–2790
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FIgure-2-1

Cardiomiopatia dilatativa e trombosi intraventricolare sinistra come manifestazioni cliniche di granulomatosi eosinofila con poliangioite: un case report.

Alessandro AppetecchiaMD1,Federica ColettiMD1, Valeria De Luca MD1, Mihail Celeski MD1, Valerio Fanale MD1, Ylenia La PortaMD1, Lorenzo Guarino MD1, Giorgio Antonelli MD1

1 Department of Cardiovascular Sciences, Campus Bio-Medico University Foundation, Rome, Italy. 

Abstract

La granulomatosi eosinofila con poliangioite (EGPA), conosciuta anche come sindrome di Churg-Strauss, è una rara forma di vasculite dei piccoli-medi vasi che coinvolge frequentemente il cuore in modo eterogeneo, causando miocardite, insufficienza cardiaca, pericardite, aritmie, arterite coronarica, valvulopatia o trombosi intracavitaria, con una prognosi sfavorevole se non precocemente diagnosticata e trattata.  Riportiamo il caso di una paziente di 45 anni con cardiomiopatia a fenotipo dilatativo ipocinetico e trombosi intraventricolare sinistra da coinvolgimento cardiaco di EGPA.

Caso clinico:


Donna di 45 anni, con pregressa abitudine tabagica, senza eventi cardiovascolari maggiori in anamnesi, con storia di asma bronchiale e sinusopatia. Accedeva al Pronto Soccorso del Policlinico per insorgenza da circa tre mesi di dispnea progressivamente ingravescente e parestesie dell’arto inferiore sinistro per cui eseguiva PET-TC total body esternamente con riscontro di tromboembolia polmonare segmentaria sinistra associata a formazioni pseudo nodulari polmonari. All’obiettività cardio-toracica ottusità plessica e riduzione del murmure vescicolare alle basi polmonari, epatomegalia ed arto inferiore sinistro caldo e edematoso. All’ECG: tachicardia sinusale con FC 105 bpm, bassi voltaggi diffusi periferici, normale conduzione AV ed IV, scarsa progressione dell’onda R nelle derivazioni precordiali, diffuse anomalie della ripolarizzazione. L’ecocardiogramma evidenziava: dilatazione e diffusa ipocinesia del ventricolo sinistro, con verosimile stratificazione trombotica all’apice e severa riduzione della funzione sistolica globale (FE 20%), dilatazione biatriale, ventricolo destro dilatato con ridotta contrattilità, versamento pericardico circumferenziale non determinante compressione sulle camere cardiache. Gli esami ematochimici mostravano eosinofilia (1900 cell, v.r. 11%), lieve rialzo della troponina I HS (56 pg/ml), rialzo di NT-Pro BNP (26200 pg/ml) e degli indici di funzionalità epatica. Quindi la paziente si ricoverava in UTIC per la prosecuzione dell’iter diagnostico-terapeutico. Durante la degenza, in considerazione della disfunzione ventricolare di nuovo riscontro, si eseguiva TC coronarica che documentava coronarie epicardiche indenni da patologia ateromasica significativa, confermando però la presenza di trombosi endocavitaria. A completamento diagnostico si eseguiva Cardio RMN (CMR) (Figura 1) che confermava quadro di cardiopatia dilatativa con severa riduzione della funzione sistolica biventricolare (FEVS 14 %, FEVD 26%), presenza di late gadolinium enhancement (LGE) in sede sub-endocardica con coinvolgimento diffuso dei segmenti ventricolari medio-apicali ed in sede infra-miocardica a livello del SIV inferiore basale e medio-apicale, come da esiti fibrotici. La TC total body confermava la tromboembolia e le lesioni polmonari (Figura 2) e mostrava versamento pleuro-pericardico, cirrosi epatica cardiogena, trombosi della vena uterina di destra e della vena gonadica di sinistra.  In considerazione dell’ipereosinofilia, della presenza di noduli polmonari, della neuropatia periferica, dell’anamnesi personale di asma bronchiale e sinusiti ricorrenti, unitamente ai reperti strumentali e laboratoristici, si poneva diagnosi di vasculite eosinofilica ANCA-negativa con interessamento cardiaco, secondo i criteri ACR 2022, e si intraprendeva terapia steroidea ed immunosoppressiva con ciclofosfamide. Dopo terapia medica ottimizzata, non assistendo ad un significativo recupero della funzione sistolica ventricolare, la paziente veniva sottoposta ad impianto di ICD sottocutaneo.

Discussione:
La granulomatosi eosinofila con poliangioite (EGPA) (o sindrome di Churg-Strauss) è una forma rara di vasculite, caratterizzata da infiammazione granulomatosa eosinofilica e vasculite necrotizzante dei vasi di piccolo e medio calibro, associata nel 40 – 60% dei casi a positività di P-ANCA.  Si manifesta clinicamente con infiltrati polmonari (spesso migranti), poli o mononeuropatie, polisierositi, interessamento cardiaco e renale.   La diagnosi si basa sui seguenti criteri codificati dall’American College of Rheumatology (per la diagnosi è necessario un punteggio ≥6):

– malattia ostruttiva delle vie aeree (+3),

– polipi nasali (+3),

– mononeurite multipla (+1)

– eosinofilia ≥ 1×109/L (+5)

– infiammazione eosinofila extravascolare alla biopsia (+2);

– positività per anticorpi cANCA o anti-PR3 (- 3)

– ematuria (-1)

La paziente presentava storia di asma bronchiale da più di 5 anni, sinusiti ricorrenti, mononeurite (all’elettromiografia degli arti inferiori segni di denervazione in atto ai muscoli pedidio e gastrocnemio sinistro) ed ipereosinofilia che in accordo con i criteri ACR 2022 permettevano di confermare la diagnosi di EGPA (punteggio 9).

I pazienti si possono presentare con un quadro di miocardite, insufficienza cardiaca, pericardite, aritmie, arterite coronarica, valvulopatia o trombosi cardiaca intracavitaria. È stato ipotizzato che vi siano tre fasi consecutive di danno cardiaco determinato dall’infiltrazione eosinofila: 1. infiltrazione eosinofila del miocardio e necrosi miocardica acuta; 2. stadio trombotico e sviluppo di fibrosi dell’endocardio, del miocardio e delle corde tendinee, fino alla possibile evoluzione in cardiomiopatia restrittiva; 3. disfunzione valvolare.
Il coinvolgimento cardiaco interessa il 60% dei casi, con una prognosi sfavorevole (mortalità 50%); risulta più frequente nei pazienti ANCA negativi, come nel caso in questione. La nostra paziente presentava un quadro di cardiomiopatia a fenotipo dilatativo ipocinetico con coinvolgimento biventricolare, con concomitante presenza di uno stato trombotico (trombo intraventricolare, tromboembolia polmonare, trombosi della vena uterina e gonadica), non correlato a componente trombofilica (esclusa mediante ricerca di mutazione del fattore V di Leiden, Fattore II, dosaggio della proteina C ed S, degli anticorpi antifosfolipidi, risultati negativi). Lo stato pro-trombotico era dunque principalmente imputabile all’ipereosinofilia.

L’ECG mostra generalmente alterazioni aspecifiche (inversione dell’onda T, dilatazione atriale, ipertrofia ventricolare, BBdx incompleto, scarsa progressione onda R e BAV di I grado). Nel presente caso l’ECG mostrava diffuse anomalie del tratto ST-T e scarsa progressione dell’onda R nelle derivazioni precordiali. L’ecocardiogramma transtoracico, esame mandatorio in pazienti con EGPA, può rilevare ipertrofia ventricolare sinistra, dilatazione atriale sinistra, dilatazione ventricolare destra e versamento pericardico. Segno distintivo è l’obliterazione trombotica dell’apice del ventricolo sinistro o destro (presente nel 41% dei casi), osservato anche nella nostra paziente (Figura 3). I reperti CMR più comuni sono, invece, il LGE subendocardico e la dilatazione ventricolare sinistra con ridotta funzione sistolica globale, analogamente al caso presentato. La biopsia endomiocardica rimane il gold standard diagnostico per l’evidenza istologica di fibrosi endocardica, trombosi murale ed infiammazione e trombosi dei piccoli vasi, sebbene gravata da un maggiore invasività. Nel caso in oggetto si soprassedeva all’esecuzione della stessa, essendo la diagnosi già definita secondo criteri clinici e laboratoristici.

Il trattamento comprende la terapia antinfiammatoria/immunosoppressiva, il management delle complicanze trombotiche e, nei casi di coinvolgimento cardiaco, la terapia specifica per l’heart failure (HF). Nel caso presentato si è intrapreso trattamento con glucocorticoidi e ciclofosfamide (immunosoppressore, riservato alle forme gravi di malattia con coinvolgimento multiorgano), con guideline-directed medical treatment (GDMT) per l’HF e terapia anticoagulante a dosaggio terapeutico. Prima dell’avvio della terapia immunosoppressiva, si escludeva la presenza della mutazione F1P1L1-PDGFRA, variante genetica associata ad una forma di ipereosinofilia che beneficia di target therapy con Imatinib.  Dopo i primi cicli di terapia antinfiammatoria/immunosoppressiva si otteneva un rapido miglioramento dei parametri laboratoristici (normalizzazione della conta eosinofila) e della sintomatologia (miglioramento della dispnea, dell’astenia e della sintomatologia neurologica), senza tuttavia assistere ad un miglioramento della funzione sistolica globale ventricolare (valutata mediante ecocardiogrammi seriati), nonostante GDMT. Pertanto, in considerazione della severa disfunzione ventricolare sinistra (FEVS<35%) e dell’esteso LGE alla CMR, si decideva di procedere ad impianto di ICD sottocutaneo in prevenzione primaria della morte cardiaca improvvisa.

Conclusioni:
In questa giovane paziente, che accedeva al PS per documentata tromboembolia polmonare, sintomatica per dispnea, con storia di asma bronchiale di lunga data, e riscontro laboratoristico di eosinofilia, l’evidenza ecocardiografica di cardiomiopatia dilatativa e trombosi ventricolare sinistra, ha portato alla diagnosi di scompenso cardiaco a ridotta frazione d’eiezione da EGPA con grave coinvolgimento cardiaco. La CMR ha avuto un ruolo chiave, sia per la diagnosi, che per la gestione a lungo termine. Le armi terapeutiche a nostra disposizione sono rappresentate dal trattamento immunosoppressivo con corticosteroidi, ciclofosfamide e rituximab, che possono indurre una remissione clinica e strumentale completa. Tuttavia, nel caso proposto, la severa dilatazione e disfunzione biventricolare e l’esteso LGE alla CMR suggerivano un’improbabile reversibilità della cardiopatia con sola terapia medica ottimizzata, associandosi quindi ad una scarsa prognosi a lungo termine.

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Figura 1: CMR con evidenza di LGE inframiocardico e versamento pleuro-pericardico (figura chiave)

Figura 2: CT Torace con evidenza di formazioni pseudo nodulari polmonari e versamento pleurico.

Figura 3: Ecocardiogramma color-doppler transtoracico con evidenza di trombosi apicale ventricolare sinistra e versamento pericardico

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Atrial Fibrillation and Peri-Atrial Inflammation Measured through Adipose Tissue Attenuation on Cardiac Computed Tomography

Autori: Nicola Gaibazzi, Chiara Martini, Giorgio Benatti, Alessandro Anselmo Palumbo, Giovanna Cacciola, Domenico Tuttolomondo 

ABSTRACT

L’infiammazione del tessuto adiposo epicardico localizzato attorno all’atrio sinistro, alterando le proprietà morfo-funzionali di quest’ultimo, gioca un ruolo chiave nell’induzione della fibrillazione atriale. Lo scopo di questo studio è quello di valutare quanto il volume e/o la densità di tessuto adiposo peri-atriale  siano correlate all’insorgenza di FA, in maniera indipendente rispetto alle dimensioni atriali.

Figura 1. Ricostruzione di una proiezione trasversale dell’atrio sinistro, ove viene misurato il volume e il valore di attenuazione (in Hounsfield) del tessuto adiposo periatriale localizzato posteriormente ad esso.A) rappresenta la prima sezione, ricavata all’altezza del seno coronarico mentre B) corrisponde a una sezione medioatriale. C) rappresenta la regione di interesse (ROI) di una specifica sezione tracciata manualmente mentre D) mostra la ricostruzione 3D della ROI

Sebbene il volume di tessuto adiposo peri-atriale sia significativamente maggiore in termini assoluti nei pazienti con FA, al contrario una maggiore densità dello stesso risulta essere un parametro più affidabile associato all’insorgenza di FA, indipendentemente dalle dimensioni dell’atrio sinistro, considerando che i pazienti con FA presentano di per sé volumi atriali maggiori.

ARTICOLO

Diversi studi hanno riportato un’associazione tra tessuto adiposo epicardico-pericardico e la fibrillazione atriale; (1,2)  i meccanismi fisiopatologici ipotizzati alla base del trigger aritmico includono il rimodellamento elettrico  secondario all’infiltrazione adiposa dei miociti atriali e/o all’attività pro-infiammatoria degli adipociti stessi, oppure indotto dalla fibrosi del miocardio adiacente (3;4).

L’associazione infiammazione-FA si è basata sinora su assunti di tipo “indiretto”, derivati dal riscontro di aumentati livelli sistemici di PCR o citochine in corso di FA e/o dall’evidenza di una ridotta incidenza di tale aritmia nei pazienti trattati con colchicina nella prevenzione della PO-AF. [5].

Il ruolo dell’infiammazione è stato anche studiato mediante metodiche d’imaging: dapprima, sebbene con scarso rendimento diagnostico, tramite PET con 18-FDG, probabilmente per la scarsa selettività del tracciante per l’attività macrofagica indotta dall’infiammazione locale e/o per una possibile ridotta captazione in presenza di fibrosi atriale, caratteristica precipua del milieu atriale in corso di FA. [6].

Successivamente, uno studio più recente ha invece esaminato tramite tomografia cardiaca computerizzata (TC) la quota di tessuto adiposo situato posteriormente all’atrio sinistro, dimostrando come la massa di  grasso peri-atriale sia significativamente maggiore nei pazienti con FA, (7] seppur con il severo limite di una mancata correzione di tale valore per le dimensioni dell’atrio sinistro, rendendo in tal mondo non possibile concludere con certezza se il risultato ottenuto fosse semplicemente dovuto alla presenza di per sé di atri di più grandi dimensioni nei pazienti con fibrillazione atriale, o se le due variabili fossero effettivamente indipendenti tra loro.

Nel nostro studio abbiamo ipotizzato come il valore di densità media del grasso peri-atriale, misurato come area di “attenuazione” alla CT, possa essere considerato un marker dello stato infiammatorio locale, analogamente a quanto precedentemente dimostrato per il tessuto adiposo perivascolare coronarico. [8] .

L’analisi è stata condotta secondo un modello retrospettivo, caso-controllo, su un totale di 160 pazienti, suddivisi in 2 gruppi: 80 con storia di FA in predicato di eseguire ablazione trans-catetere vs 80 senza anamnesi positiva per FA selezionati casualmente come controlli con quadro di sospetta coronaropatia, entrambi sottoposti a CCTA dal Gennaio 2015 al Gennaio 2019, per la valutazione rispettivamente dell’anatomia delle vene polmonari e del circolo coronarico.

Sono stati esclusi dal presente studio pazienti con CAD nota o malattia infiammatoria/infettiva cronica o cancro attivo o indolente, pregresso MINOCA, precedente rivascolarizzazione coronarica chirurgica o percutanea o chirurgia aortica/vascolare, sindrome di Tako Tsubo, cardiopatia valvolare; sono stati selezionati come controlli solo i pazienti con evidenza alla CCTA di stenosi non significative, di lieve entità (≤ 30%) o circolo coronarico indenne.

Il tessuto adiposo peri-atriale (Fat-LA) è stata identificato come tale per valori di unità di Hounsfield (HU) alla TC compresi −190 e −30 HU, e per ciascun paziente è stato fornito il valore medio di attenuazione del grasso, riportando anche le percentuali di tessuto adiposo all’interno del volume peri-atriale complessivamente campionato; il volume assoluto di Fat-LA è stato in seguito indicizzato per le dimensioni dell’atrio sinistro.

RISULTATI

I pazienti nel gruppo FA erano significativamente più anziani (61,4 ± 10,9 contro 55,5 ± 12,9 anni, p = 0,004), meno frequentemente femmine (30% contro 54%, p = 0,002), e presentavano un valore mediano di BMI simile tra i due gruppi (27 (25–30) vs. 25,9 (23,7–28,6) kg/m2, p = 0,189).

Tra i principali parametri ecocardiografici, il valore di LVEF non è risultato diverso tra i due gruppi (60 (55–64) vs. 60 (55–63)%, p = 0,723), mentre i valori di area e volume atriale sinistro nettamente maggiori rispetto ai controlli (rispettivamente di area pari a 22,4 (18,3–25,8) versus 18 (15–19,5 cm2, p<0,001) e di LAVI pari a 37 (33–43) versus 33 (23,5–37,5) ml, p = 0,030).

Il volume della regione di interesse (ROI) che è stato disegnato posteriormente all’atrio sinistro era significativamente più alto nei pazienti con FA rispetto ai controlli (26,4 (22,4 –32,5) vs 18 (14,1–23,6) ml, p <0,001. Il volume mediano di Fat-LA nella popolazione era di 4,2 (2,6–6,6) ml; la sua misura assoluta è risultata significativamente più alta nei casi (4,7 (3,2–7,5) vs 3,6 (2,2–5,5) ml, p= 0,007), per contro la percentuale di Fat-LA all’interno della ROI di interesse non era significativamente diversa tra i due gruppi (AF 19,48% ± 9,47 vs non AF 21,06% ± 9,54, p = 0,317).

FIGURA 2A

Come mostrato nella Figura 2a, rispetto all’intero volume della ROI designata, il volume assoluto di grasso peri-atriale è risultato ad esso significativamente correlato, con r = 0,531 (IC 95% da 0,404 a 0,638), p < 0,0001; la densità invece, solo lievemente relata, con r = 0,208 (IC 95% da 0,047 a 0,358) e un significato borderline di p = 0,01 (non mostrato). 

FIGURA 2B

I pazienti con FA presentavano valori significativamente più alti (più vicini a 0 HU) di densità di grasso peri-atriale rispetto al gruppo non-FA (attenuazione media -69,15 ± 8,28 vs -76,82 ± 8,54 HU, p < 0,001) (vedi Figura 2b). 

Il volume del grasso peri-atriale è risultato maggiore nei pazienti con FA (5,42 ± 2,94 ml) rispetto a quelli non affetti (4,16 ± 2,55 ml, p = 0,007), ma la quota relativa di tessuto adiposo non differiva dopo aggiustamento di tale valore per le dimensioni dell’atrio sinistro singolarmente analizzate. La media del valore di attenuazione del grasso si è rivelata significativamente più alta nei soggetti affetti da FA (-69,15 HU) rispetto ai controlli (-76,82 HU, p <0,0001). 

CONCLUSIONI

Il volume di tessuto adiposo peri-atriale è significativamente aumentato nei soggetti con burden aritmico rispetto a quelli senza: tuttavia questo dato perde di valenza statistica se si tiene conto del maggiore volume dell’atrio sinistro proprio dei pazienti fibrillanti.

 Di converso, la densità del grasso prospiciente l’atrio sinistro valutato alla TC cuore è risultata direttamente correlata con la coesistenza di FA indipendentemente dalle dimensioni atriali. 

Questa associazione potrebbe costituire in futuro una possibile variabile da valutare nei pazienti con FA che si sottopongono ad imaging cardiovascolare multimodale pre-ablazione.

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FIgura-1

Trombosi endoluminale di aneurisma coronarico misconosciuto come causa di infarto miocardico acuto. Strategia medica, percutanea, chirurgica o combinata?

Setting clinico: Ospedale Sandro Pertini, Roma                    

Antonio Davide Cioffi1, Martina Renda1, Francesco Starnazzi1, Simona Samperi1, Lupo-Lorenzo Dei1, Simona Minardi1, Silvio Romano1, Antonino Granatelli2

  1. Università degli studi dell’Aquila
  2. Ospedale Sandro Pertini, Roma

Abstract

Gli aneurismi coronarici sono delle dilatazioni di almeno una unità e mezza rispetto ad un segmento adiacente. Sono spesso causa di quadri ischemici per le complicanze alle quali vanno incontro. La loro identificazione risulta un dilemma in termini di diagnosi, trattamento e follow-up. Presentiamo il caso clinico di un paziente con sindrome coronarica acuta con sovraslivellamento del tratto ST (SCA-STEMI) inferiore il cui albero coronarico mostrava severa dilatazione aneurismatica con occlusione trombotica della coronaria destra. L’angioplastica senza impianto di stent ha previsto una terapia antiaggregante e anticoagulante con evidenza di risoluzione dell’alto burden trombotico iniziale ai successivi controlli angiografici, a 24 h ed 1 mese dall’evento acuto.

Introduzione: L’aneurisma coronarico è caratterizzato dalla dilatazione di una o più porzioni di una coronaria il cui diametro supera di almeno una unità e mezza rispetto ad una porzione adiacente. L’incidenza varia tra lo 0,15 e il 4,9% dei pazienti sottoposti a coronarografia. Può presentarsi localizzato ad un singolo segmento o diffuso.  Sebbene siano spesso reperti accidentali, complicanze come trombosi, embolizzazione distale, rottura e vasospasmo possono causare quadri clinici importanti che variano dall’angina, all’infarto miocardico fino a quadri ben più gravi di insufficienza cardiaca e morte improvvisa. La letteratura riporta alcuni casi che si mostrano tuttavia molto eterogenei tra loro suggerendoci come il trattamento più appropriato sia tutt’oggi oggetto di controversie, probabilmente perché la loro storia naturale e prognosi non sono sufficientemente conosciute.

Caso clinico: Uomo di 62 anni, fumatore, ipercolesterolemico si presentava per SCA-STEMI inferiore con breve tempo precoronarico (1 ora). L’ECG mostrava un sopraslivellamento del tratto ST in sede inferiore e laterale (Figura 1). Veniva dunque posta indicazione a coronarografia urgente previa somministrazione di 250 mg di acido acetilsalicilico ev, 180 mg di ticagrelor per o.s. e 5000 ui di eparina non frazionata.

Figura 1. ECG: rs, Fc 75 bpm, sopra-ST in DII, DIII ed aVF ed in V5 e V6 di almeno 2 mm.

La coronarografia evidenziava albero coronarico sinistro indenne da stenosi significative (Figura 2). La coronaria destra (Cdx) presentava dilatazione aneurismatica al primo tratto con occlusione trombotica del terzo tratto ad elevato burden trombotico. Si procedeva a tromboaspirazione ed angioplastica con “kissing balloon” tra il ramo postero-laterale e l’interventricolare posteriore. In relazione al marcatissimo carico trombotico della coronaria aneurismatica si decideva di non impiantare nessuno stent e, dopo aver osservato lenta opacizzazione distale del vaso (TIMI 2), si impostava infusione continua e.v. di Eparina e Tirofiban al dosaggio di 0,15 microgrammi/kg/min per 18 ore.

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Figura 2. Coronarografia. A sn: aneurisma del primo tratto della Cdx con occlusione trombotica distale. A dx: parziale ricanalizzazione del vaso dopo angioplastica.

Il paziente veniva quindi ammesso in UTIC, paucisintomatico, Pa 140/85 mmHg, FC 60 bpm, Spo2 96% in aria ambiente. L’ecocardiogramma mostrava ventricolo sinistro di dimensioni e spessori parietali normali con acinesia della parete inferiore ed ipocinesia dei segmenti medio-basali della parete laterale condizionante una moderata disfunzione sistolica con frazione di eiezione 45%. Nei giorni successivi gli enzimi di miocardiocitonecrosi raggiungevano un picco di 37,6 ng/ml, l’ECG mostrava una regressione del sopraslivellamento del tratto ST ed il paziente si manteneva in buon compenso emodinamico in assenza di aritmie al monitoraggio telemetrico.

A 24 ore dall’evento acuto il controllo angiografico evidenziava un significativo miglioramento della trombosi endoluminale con pervietà del ramo interventricolare posteriore (flusso TIMI 3) anche se residuava l’occlusione trombotica distale del ramo postero-laterale. In relazione all’assenza di lesioni aterosclerotiche stenosanti non si poneva indicazione ad impianto di stent. Veniva impostata terapia con acido acetilsalicilico, ticagrelor e warfarin per una settimana mantenendo un INR tra 2 e 2,5. Il paziente veniva dunque dimesso con terapia anti-ischemica (beta-bloccante, ace-inibitore, statina e diuretico) e dopo discussione collegiale si decideva di switchare il ticagrelor a clopidogrel 75 mg 1 cp mantenendo l’anticoagulante. Un ulteriore controllo angiografico ad 1 mese di distanza (Figura 3) mostrava la ricanalizzazione completa del ramo postero-laterale confermando dunque l’efficacia della terapia anti-aggregante ed anticoagulante somministrata, che veniva dunque sospesa per proseguire con la singola anti-aggregazione.


Figura 3. Controllo coronarografico a 24h: significativo miglioramento della trombosi endoluminale, pervietà del ramo interventricolare posteriore con flusso TIMI 3.

Discussione: Gli aneurismi coronarici decorrono spesso in maniera asintomatica. Tuttavia, come nel caso riportato, l’obliterazione completa o parziale del lume dell’aneurisma da parte di un trombo o la sua embolizzazione può condurre ad una sindrome coronarica acuta. Il nostro paziente è stato sottoposto con successo a tromboaspirazione percutanea ed a terapia medica con anticoagulanti ed antiaggreganti.  Il follow-up angiografico a 24 ore e ad 1 mese dall’evento acuto ha mostrato una completa ricanalizzazione della trombosi endoluminale.

Conclusioni:

Questo caso suggerisce che in presenza di importanti dilatazioni aneurismatiche a carico delle arterie coronarie può essere necessaria una terapia antitrombotica particolarmente aggressiva (off-label). Infatti, pur in assenza di linee guida che stabiliscano la terapia più appropriata in presenza di aneurismi coronarici, esistono diverse esperienze condivise, case report ed articoli in letteratura che suggeriscono il possibile impiego di una terapia specifica, perlopiù basata sull’utilizzo di anticoagulanti.

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Complete heart block as a rare manifestation of granulomatosis with polyangitis: a case report

Rossella Manai, Marco Matteo Cingolani, Francesco Bruno, Claudia Raineri, Pier Paolo Bocchino, Simone Frea, Gaetano Maria De Ferrari

Division of Cardiology, Cardiovascular and Thoracic Department, Città della Salute e della Scienza, Turin, Italy; Cardiology, Department of Medical Sciences, University of Turin, Italy

Abstract:

Il coinvolgimento cardiaco nella granulomatosi con poliangioite (GPA) meglio conosciuta come granulomatosi di Wegener è raro, ma si può manifestare in diversi modi, causando pericardite, miocardite, lesioni valvolari, arterite a livello coronarico e difetti del sistema di conduzione. La GPA non trattata è una condizione fatale la cui prognosi è particolarmente influenzata dal coinvolgimento renale e cardiaco. Riportiamo il caso di un paziente di 42 anni con un blocco atrioventricolare completo dovuto a infarto miocardico antero-settale secondario ad arterite coronarica legata a GPA.

Introduzione

La granulomatosi con poliangioite (GPA), altresì conosciuta come granulomatosi di Wegener, è una rara vasculite sistemica immunologicamente mediata di eziologia sconosciuta caratterizzata da un pattern di reazione infiammatoria (necrosi, infiammazione granulomatosa e vasculite dei piccoli vasi) che coinvolge principalmente le vie respiratorie superiori ed inferiori e i reni1. La GPA è inclusa nel gruppo delle vasculiti associate agli anticorpi citoplasmatici anti-neutrofili (ANCA) e fu descritta per la prima volta come sindrome separata da Friedrich Wegener nel 1936 e nel 19392-3.

È una malattia rara, ed in Europa la sua prevalenza è di 5 casi ogni 100.000 abitanti, con una maggiore incidenza nel Nord Europa e nella popolazione caucasica4. Entrambi i sessi sono colpiti allo stesso modo ed interessa un’ampia fascia di età (da 8 a 99 anni), con un’età media alla diagnosi di 40 anni5.

Il coinvolgimento cardiaco è raro e colpisce il 3,3-10% dei pazienti 6, ma è stato riportato un ampio spettro di anomalie, tra cui pericardite, miocardite, lesioni valvolari, arterite a livello coronarico e difetti del sistema di conduzione.

In questo case report riportiamo il caso di un uomo di 42 anni con un blocco atrioventricolare completo dovuto a infarto miocardico antero-settale secondario ad arterite coronarica legata a granulomatosi con poliangite o granulomatosi di Wegener.

Caso Clinico

Un uomo di 42 anni, ex fumatore, si è presentato nel nostro pronto soccorso dopo una sincope atraumatica senza prodromi, preceduta da forte dolore all’arto inferiore sinistro. In anamnesi riportava solo tabagismo e una reazione allergica al pistacchio. A causa della tosse persistente un mese prima, aveva effettuato una TC del torace che mostrava un nodulo polmonare apicale destro di 28 mm di diametro con margini acuti e spiculati e un nodulo subpleurico di 10 mm di diametro nel segmento apicale del lobo superiore destro, ipercaptante alla PET-TC successivamente effettuata (Figura 1).

Figura 1: TC torace e maxillo faciale ed ECG di ingresso del paziente

L’ECG all’ingresso in pronto soccorso mostrava un blocco atrioventricolare completo con un ritmo scappamento ventricolare di 40 bpm (Figura 1). L’ecofast evidenziava una lieve riduzione della frazione di eiezione (FE 45%) con un’ipocinesia al livello del setto basale.

Gli esami di laboratorio effettuati hanno mostrato un aumento dei leucociti con spiccata neutrofilia e eosinofilia, una PCR di 193 mg/dl (vn <5 mg/dl), una troponina I di 18483 ng/l (vn <34 ng/l) e NTproBNP di 14627 ng/l con associata trombocitosi, anemia e insufficienza renale acuta (creatinina 2,27 mg/dl). 

Dato il quadro di blocco AV completo e l’instabilità emodinamica, il paziente veniva trasportato d’urgenza nel laboratorio di emodinamica per l’inserimento di un pacemaker temporaneo. La coronarografia effettuata per escludere una sindrome coronarica acuta ha mostrato l’occlusione distale del primo ramo settale, diagonale e marginale, trattate conservativamente (Figura 2).

Dopo la procedura, il paziente è stato trasferito nella nostra Unità di Terapia Intensiva Coronarica dove ha sviluppato segni e sintomi di ischemia acuta dell’arto inferiore sinistro. A causa dell’ischemia persistente e dei tentativi falliti di ripristinare la vascolarizzazione degli arti con trombolisi locoregionale e angioplastica percutanea, è stata eseguita un’amputazione della gamba sopra il ginocchio dopo alcuni giorni. L’arto amputato è stato inviato all’anatomia patologica per un’analisi microscopica e molecolare.

Figura 2: Coronarografia ed esame anatomopatologico a microscopio ottico della gamba amputata del paziente

Le emocolture, urinoculture e tutti i markers neoplastici sono risultati negativi, mentre l’esame dei sedimenti urinari ha mostrato cilindri, leucociti e grave eritrocituria, fortemente indicativi di glomerulonefrite acuta. Per escludere un coinvolgimento del sistema nervoso centrale abbiamo eseguito una TC cranio e delle ossa facciali che ha mostrato una sinusite mascellare sinistra (Figura 1).  Nel sospetto quindi di una vasculite sistemica, abbiamo anche richiesto un pannello di screening reumatologico che ha mostrato un alto titolo di cANCA (125 UI/ml). L’esame anatomopatologico dell’arto amputato ha mostrato una marcata vasculite necrotizzante con ampio coinvolgimento di vasi arteriosi di piccolo-medio e di grosso calibro con associate lesioni trombotiche focali sovrapposte, in parte ricanalizzate (Figura 2). Sulla base di questi risultati clinici e di laboratorio abbiamo effettuato una diagnosi di GPA.

Il paziente, quindi, è stato trattato con metilprednisolone EV in bolo da 500 mg per tre giorni, seguito da glucocorticoidi orali ad alte dosi (prednisone 1 mg/kg/giorno)con associato rituximab 375 mg/m2 settimanalmente per 4 cicli7. Dopo la terapia di induzione, il paziente ha ripetuto una TC del torace che ha mostrato una marcata riduzione delle dimensioni del nodulo polmonare (Figura 3). La funzionalità renale è gradualmente migliorata con un valore di creatinina alla dimissione di 1,37 mg/dl. La conduzione atrioventricolare 1:1 è stata ripristinata dopo pochi giorni dal ricovero e non sono più stati documentati blocchi AV o pause patologiche, permettendo la rimozione del pacemaker temporaneo. Il paziente è stato dimesso in ritmo sinusale con blocco di branca destra completo (Figura 3). L’ecocardiogramma alla dimissione ha mostrato una funzione sistolica lievemente compromessa (FE 48%), in presenza di acinesia del setto basale e una ridotta deformazione longitudinale globale (valore medio -17,3%) (Figura 3).

Discussione

La GPA non trattata è una condizione fatale la cui prognosi è particolarmente influenzata dal coinvolgimento renale e cardiaco. La terapia per la GPA ha aumentato la sopravvivenza, con conseguente remissione in oltre il 90% dei pazienti, in particolare nei pazienti che non hanno ancora sviluppato un danno renale importante8. Se non trattata, la malattia di solito è rapidamente fatale e l’82% dei pazienti muore entro 1 anno. Pertanto, una diagnosi accurata e precoce di GPA è di fondamentale importanza per migliorare la prognosi. Si stima che il tasso di sopravvivenza a 10 anni sia del 40% quando sia coinvolto il rene e del 60-70% quando non vi è alcun coinvolgimento renale9.

Figura 3: TC torace di controllo, ECG e ecocardiogramma alla dimissione

I principali fattori che contribuiscono alla mortalità includono vasculite attiva, malattie cardiovascolari, neoplasie e più comunemente infezioni batteriche. Il coinvolgimento cardiaco nella granulomatosi di Wegener è secondario a vasculite necrotizzante con infiltrati granulomatosi. Pericardite e vasculite coronarica sono i reperti più frequenti (50% dei casi), ma sono descritti anche miocardite, endocardite e granulomi del sistema di conduzione10-11.

Conclusioni

La GPA presenta un ampio spettro di manifestazioni e rimane uno dei dilemmi diagnostici più impegnativi nella medicina clinica. Dai comuni sintomi respiratori e neurologici alle rare complicanze cardiache, questa malattia sistemica fatale è difficile da distinguere dalle eziologie infettive ed è spesso scambiata per un disturbo isolato12-13. Il conseguente ritardo nella diagnosi e nel trattamento può portare a disabilità e/o mortalità a causa della rapida progressione della malattia14-15.

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FIgura-1

Prognostic Value of Non-Invasive Global Myocardial Work in Asymptomatic Aortic Stenosis

Federica Ilardi1,2, Adriana Postolache1, Raluca Dulgheru1, Mai-Linh Nguyen Trung1, Nils de Marneffe1, Tadafumi Sugimoto1,3, Yun Yun Go1,4, Cécile Oury1, Giovanni Esposito2 and Patrizio Lancellotti1,5.

1 Department of Cardiology and Radiology, GIGA Cardiovascular Sciences, CHU Sart Tilman, Liege University Hospital, 4000 Liege, Belgium;

2 Department of Advanced Biomedical Sciences, Federico II University Hospital, Via S. Pansini, 5, 80131 Napoli, Italy;

3 Clinical Laboratory, Mie University Hospital, Tsu 514-8507, Japan

4 Department of Cardiology, National Heart Research Institute Singapore, National Heart Centre Singapore, Singapore 169609, Singapore

5 Gruppo Villa Maria Care and Research, Anthea Hospital, 70124 Bari, Italy

ABSTRACT

Secondo le attuali linee guida, la sostituzione valvolare aortica in pazienti affetti da SA con frazione di eiezione (FE) preservata (>55%) ed asintomatici dovrebbe essere considerata in presenza di stenosi aortica (SA) very severe (definita da specifici parametri emodinamici quali: velocità di picco del jet aortico ≥5 m/sec, gradiente medio ≥60 mmHg, rapida progressione di malattia e severa ipertensione polmonare) data l’elevatissima mortalità in questi pazienti. Tuttavia, a prescindere dai sintomi, va considerato che anche i pazienti con SA moderata presentano un rischio di morte elevato, paragonabile a quelli con SA severa e di poco inferiore ai pazienti con SA very severe. Va altresì detto che quando pazienti con SA moderata-severa asintomatici venivano stratificati secondo la stadiazione del danno cardiaco proposto da Tastet et al (Figura 1), c‘era un’aumentata mortalità nei pazienti in stadio più avanzato. Ad oggi non è stato ancora investigato il ruolo degli indici di stima non-invasiva del myocardial work (MW) nei pazienti affetti da SA asintomatici. L’obiettivo dello studio è dunque quello di valutare la variazione degli indici del MW in relazione agli stadi del danno cardiaco ed il loro valore prognostico in questi pazienti.

Figura 1. Stadiazione del danno cardiaco nella SA secondo Tastet et al.

COMMENTO

Negli ultimi anni il MW è diventato uno strumento alternativo per la valutazione della funzione miocardica: infatti, valutando la funzione del ventricolo sinistro (VS) in una maniera meno dipendente dalle condizioni di carico, è molto utile in condizioni patologiche caratterizzate da un aumentato post-carico, come la SA.

In tale studio sono stati analizzati retrospettivamente i dati ecocardiografici di 170 pazienti affetti da SA moderata-severa (area valvolare aortica ≤1,5 cm2), FE preservata (>50%) ed asintomatici. Il gruppo di controllo includeva 50 pazienti paragonabili per età e sesso. L’endpoint primario dello studio era la morte per tutte le cause e la morte cardiovascolare. I pazienti affetti da SA sono stati poi gerarchicamente classificati nel peggior stadio del danno cardiaco se almeno uno dei criteri di assegnazione veniva soddisfatto.

Come proposto da Russel et al., il MW è stato stimato come l’area del pressure-strain loops (PSL), derivato dalla combinazione dei dati dello strain del VS (ottenuto con tecnica speckle-tracking) e delle curve di pressione del VS (ottenute in maniera non-invasiva). Il lavoro totale nell’area del PSL ha permesso la stima del global work index (GWI). Ulteriori indici del MW considerati sono stati: global constructive work (GCW), global wasted work (GWW) e global work efficiency (GWE).

Riguardo gli indici del MW al baseline, si è evinto che i pazienti affetti da SA presentavano un valore significativamente maggiore di GWI, GCW e GWW (p < 0.005); vi era poi, una significativa riduzione del GWI nei pazienti in stadio 3-4 rispetto agli stadi 0 (p = 0.05) e 2 (p = 0.024) (Figura 2).

Figura 2. Pressure-strain loops (pannelli di sinistra) e rappresentazione del GWI sotto forma di diagramma bull’s-eye dei 17 segmenti del VS (pannelli di destra) in un paziente in stato di salute (A, B) ed in due pazienti affetti da SA severa (C-F). Comparato al paziente di controllo, il paziente affetto da SA in stadio 2 del danno cardiaco (C,D) presenta un pressure-strain loops più largo da cui viene stimato un valore maggiore di GWI. Al contrario negli stadi avanzati del danno cardiaco (E,F), una riduzione del valore di GWI riflette una performance contrattile del VS maggiormente alterata.

Ad un follow-up medio di 30 mesi, 76 pazienti sono stati sottoposti ad AVR e 27 pazienti sono deceduti, dei quali 23 per cause cardiovascolari. I pazienti deceduti presentavano una significativa riduzione di GWI (p = 0.006) e GCW (p=0.002) che risultavano inoltre associati ad un’aumentata mortalità per tutte le cause e per cause cardiovascolari all’analisi di regressione multivariata.

Inoltre, quando usate come variabili categoriche, un valore di GWI ≤ 1951 mmHg% (HR: 13.0, 95% CI: 2.9-58.6, p=0.001) ed un valore di GCW ≤ 2475 mmHg% (HR: 21.5, 95% CI: 4.5-102.7, p <0.001) rimanevano significativamente predittivi di mortalità per tutte le cause e per cause cardiovascolari all’analisi multivariata ad un follow-up di 4 anni.

Infine, nei pazienti affetti da SA asintomatici con un valore di GWI ≤ 1951 mmHg% al baseline, paragonato ai pazienti con un valore maggiore di GWI (> 1951 mmHg%), vi era un maggior tasso di decessi per tutte le cause (37% vs 7.5%, log-rank p <0.001) e per cause cardiovascolari (34.8% vs 8.7% log-rank p<0.001) a 48 mesi di follow-up. Allo stesso modo, nei pazienti con un valore di GCW ≤ 2475 mmHg%, paragonato a quelli con un valore più alto di GCW (>2475 mmHg%), è stato riscontrato un tasso maggiore di morte per tutte le cause (48.1% vs 15.7, log-rank p <0.001) e per cause cardiovascolari (47.8% vs 16.7%, log-rank p <0.001) a 48 mesi di follow-up (Figura 3).

Figura 3. Curve di Kaplan-Meier in riferimento ai cutoff stabiliti per GWI e GCW rispetto alla mortalità per tutte le cause e per cause cardiovascolari.

Dunque, i principali risultati dello studio sono i seguenti:

  • Nei pazienti affetti da SA moderata-severa asintomatici con FE preservata, gli indici del MW, inclusi GWI, GCW e GWW erano significativamente aumentati rispetto ai controlli.
  • Negli stadi più avanzati del danno cardiaco il GWI è significativamente ridotto comparato ai pazienti senza segni di danno cardiaco.
  • Una riduzione del GWI ≤ 1951 mmHg% o del GCW ≤ 2475 mmHg% è un predittore indipendente di mortalità.

In conclusione, nei pazienti asintomatici con SA moderata-severa, ridotti valori di GWI e GCW sono associati ad un’aumentata mortalità. Quindi, l’analisi del MW si propone come un valido strumento per predire la prognosi in questa categoria di pazienti, prevedendo coloro con aumentato rischio di un peggior outcome nel corso del follow-up.

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Fibrillazione atriale postoperatoria dopo chirurgia non cardiaca: revisione sistematica e metanalisi

Alessandro Albini1,Vincenzo Livio Malavasi1, Marco Vitolo1,2, Jacopo Francesco Imberti1, Marco Marietta3, Gregory Y.H. Lip2,4 and Giuseppe Boriani1

1 Cardiology Division, Department of Biomedical, Metabolic and Neural Sciences, University of Modena and Reggio Emilia, Policlinico di Modena, Modena, Italy

2 Liverpool Centre for Cardiovascular Science, University of Liverpool and Liverpool Heart & Chest Hospital, Liverpool, United Kingdom

3 Department of Oncology and Haematology, University Hospital, Modena, Italy

4Aalborg Thrombosis Research Unit, Department of Clinical Medicine, Aalborg University, Aalborg, Denmark.

Abstract

La fibrillazione atriale postoperatoria (POAF) nel contesto della chirurgia non cardiaca (NCCH) è frequente e correlata con un peggiore outcome intraospedaliero. Meno solidi sono i dati sul significato a lungo termine di questa aritmia. Presentiamo la recente metanalisi della letteratura realizzata dal nostro gruppo. Lo sviluppo di POAF è risultato correlato ad un aumento di 4 volte del rischio di stroke. Inoltre, la mortalità nel gruppo POAF è risultata significativamente più alta rispetto ai pazienti post NCCH senza sviluppo di POAF. Tali dati mostrano che la sistematica ricerca della POAF potrebbe contribuire a migliorare l’outcome di questo cluster di pazienti; inoltre appare necessario identificare strategie di prevenzione e valutare l’impatto della terapia anticoagulante nel gruppo ad elevato rischio tromboembolico.

Commento

La fibrillazione atriale postoperatoria (POAF) è definita come fibrillazione atriale (AF) di nuovo riscontro nel contesto postoperatorio ed ha una incidenza che raggiunge il 50% in cardiochirurgia (CCH) e il 15% in chirurgia non cardiaca (NCCH)(1,2). Tale aritmia si associa a maggiori complicanze postoperatorie, maggiore spesa sanitaria e mortalità intra-ricovero (2,3). Nel contesto CCH, la POAF viene considerata una conseguenza diretta della manipolazione del tessuto cardiaco, mentre in NCCH può essere interpretata come l’effetto di stressors fisiologici su un substrato atriale predisposto e potenzialmente protrombotico. (4,5) Visto il numero esiguo  di dati solidi riguardanti il rischio tromboembolico a lungo termine, legato all’interpretazione della POAF come un’ entità benigna e transitoria, rimane forte incertezza sull’ utilizzo della terapia anticoagulante in pazienti recentemente operati. Non sono disponibili ad oggi chiare indicazioni sull’anticoagulazione a lungo termine in questi pazienti. Il nostro gruppo ha pertanto realizzato una metanalisi analizzando in primis stroke e mortalità nei pazienti  POAF e senza POAF nel decorso postoperatorio della NCCH e in secondo luogo dati sulla recidiva di AF nei pazienti POAF.

Fig.1: Preferred Reporting Items for Systematic Reviews and Meta-Analyses (PRISMA) flow chart.  
Legenda: FU, follow-up; n, number; POAF, post operative atrial fibrillation; pt, patients.

La nostra strategia di ricerca in Medline, Scopus e Google Scholar è constata di 2 step: abbiamo dapprima identificato studi che riportassero gli outcome di interesse (stroke, mortalità, recidiva di AF) escludendo coorti CCH e di chirurgia carotidea/aortica. Successivamente abbiamo ristretto l’analisi a studi che avessero almeno 12 mesi di follow-up e almeno 150 pazienti con diagnosi di POAF. Inoltre, condizione necessaria per l’accettazione dello studio era l’esclusione nelle analisi di pazienti con pregressa storia di AF. La revisione sistematica ha identificato 8 studi (5, 6-12) per un totale di 3.718.587 pazienti, 7 studi osservazionali e 1 trial randomizzato controllato, mentre 6 studi sono stati meta-analizzati utilizzando il modello random-effects di Mantel-Haenszel (Figura 1).

Per quanto riguarda l’outcome stroke, l’analisi ha riguardato 2.186.644 pazienti; si sono registrati 6.766 eventi, 240 nella coorte POAF e 6.526 nella coorte senza POAF. La POAF è risultata associata con un rischio 4 volte più alto di stroke a 12 mesi (OR 4.05; 95% CI 2.91-5.62). L’analisi della mortalità ha riguardato 18.405 pazienti, la POAF è risultata associata ad un rischio 3.6 volte maggiore di mortalità a 12 mesi (OR 3.59; CI 95% 2.84-4.53) (Figura 2).

I dati sulla recidiva di fibrillazione atriale sono risultati troppo eterogenei in termini metodologici per poter essere meta-analizzati; negli studi che hanno rilevato la recidiva a 12 mesi, al netto delle differenze metodologiche, questa si attestava tra il 37 e il 39%.

La metanalisi del nostro gruppo è stata indirizzata alla identificazione del significato prognostico a lungo termine della POAF, una delle aritmie che più frequentemente sono causa di consulto cardiologico le cui implicazioni, soprattutto in termini di tromboprofilassi, sono più incerte.

Il contesto della chirurgia non cardiaca è peculiare per molteplici aspetti. In primis, differisce dalla chirurgia cardiaca per l’assenza della diretta manipolazione del tessuto cardiaco; inoltre, nel setting cardiochirurgico studi precedenti sul rischio precoce e tardivo di stroke hanno dato risultati contraddittori (13,14). Il contesto NCCH sembra condividere aspetti fisiopatologici con altri setting acuti in cui lo sviluppo di AF è correlato ad una prognosi peggiore, come la polmonite o la sepsi (15-16).

Ad ulteriore supporto degli effetti a lungo termine di episodi di AF transitori vi sono i dati riguardanti episodi di elevata frequenza atriale (AHRE) registrata da dispositivi impiantabili (17). In modo analogo agli studi sugli AHRE, anche negli studi da noi analizzati i pazienti che sviluppavano AF clinica nel follow-up venivano esclusi, per evidenziare il rischio conferito dalla sola POAF.

Fig.2: POAF e rischio long- term risk di stroke and mortality.
Legenda: CI, confidence interval; M-H, Mantel-Haenszel; POAF, post operative atrial fibrillation

Una strategia di tromboprofilassi analoga alla AF clinica sembra ragionevole in questo contesto, sebbene non siano al momento disponibili dati tratti da RCT. Un grande studio osservazionale danese ha dimostrato che il rischio tromboembolico di POAF e AF è analogo sul lungo termine e che l’incidenza dell’outcome è minore nei pazienti anticoagulati (7). In linea con i dati della letteratura e con il risultato della nostra metanalisi, le linee guida della società europea di cardiologia (ESC) 2020 raccomandano con classe di raccomandazione IIa e  livello di evidenza B, la profilassi long-term nei pazienti che sviluppano FA postoperatoria in setting NCCH a rischio tromboembolico elevato (18).

La POAF è correlata ad aumentata mortalità a breve termine (2) e la nostra analisi ha mostrato come anche la mortalità a lungo termine sia influenzata da tale evento. Sulla base del forte impatto prognostico, è ragionevole valutare strategie sistematiche per la ricerca di FA nel postoperatorio, soprattutto nelle popolazioni notoriamente a rischio più elevato (sesso maschile, afroamericani, età avanzata, comorbidità cardiache e respiratorie). L’utilizzo di score predittivi per lo sviluppo di POAF (e.g.: POAF score, CHA2DS2-VASc, CHADS2) e strategie di prevenzione farmacologica (betabloccanti, amiodarone, agenti antiossidanti) sono stati proposti, ma al momento non sono disponibili dati solidi tali da raccomandarne l’applicazione sistematica.

Conclusioni

La POAF nel contesto non cardiochirurgico è un’aritmia frequente e comporta un rischio tromboembolico e di mortalità consistente a lungo termine. L’impatto prognostico di tale aritmia dovrebbe spingere alla sua ricerca sistematica nel postoperatorio, allo sviluppo di efficaci strategie preventive e alla valutazione della terapia anticoagulante long-term nei pazienti ad elevato rischio tromboembolico.

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Light-chain cardiac amyloidosis: a case report of extraordinary sustained pathological response to cyclophosphamide, bortezomib, and dexamethasone combined therapy

Aldostefano Porcari 1*, Linda Pagura 1, Maddalena Rossi 1, Marika Porrazzo 2, Franca Dore 3, Rossana Bussani 4, Marco Merlo 1, and Gianfranco Sinagra 1 

1 Center for Diagnosis and Treatment of Cardiomyopathies, Cardiovascular Department, Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano-Isontina (ASUGI), University of Trieste, Via P. Valdoni 7, 34100, Trieste, Italy; 2 Department of Hematology, Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano-Isontina (ASUGI), Trieste, Italy; 3 Department of Nuclear Medicine, Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano-Isontina (ASUGI), University of Trieste, Trieste, Italy; and 4 Center for Diagnosis and Treatment of Cardiomyopathies, Cardiothoracic Department, Institute of Pathological Anatomy and Histology, Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano-Isontina (ASUGI), University of Trieste, Trieste, Italy.

Abstract

Il coinvolgimento cardiaco è un fattore prognostico infausto nell’amiloidosi AL. Spesso preclude terapie curative, quali chemioterapia ad alte dosi e trapianto autologo di cellule staminali (ASCT). Il trapianto cardiaco può venire considerato prima dell’ASCT in casi selezionati. Nei pazienti non eleggibili per ASCT, la chemioterapia con ciclofosfamide, bortezomib e desametasone (CyBorD), anche a basso dosaggio, può portare a remissione dalla malattia con risposta cardiaca eccellente. Riportiamo il caso di una paziente di 50 anni, con forma avanzata di amiloidosi cardiaca AL, ritirata dalle liste trapianto (sia cardiaco che ASCT) in seguito a terapia CyBorD per eccezionale risposta ematologica e cardiaca persistente.

Introduzione

L’amiloidosi a catene leggere (AL) è la forma più comune di amiloidosi sistemica, caratterizzata dalla deposizione extracellulare di immunoglobuline monoclonali a catena leggera come proteine ​​beta-fibrillari insolubili in vari tessuti, con conseguente insufficienza d’organo progressiva1. Il coinvolgimento cardiaco è comune (>50% dei pazienti con diagnosi di AL)2, e rappresenta il fattore prognostico peggiore. I pazienti con amiloidosi cardiaca avanzata (CA) di solito non traggono beneficio dai tradizionali trattamenti per l’insufficienza cardiaca3,4 e, spesso, non possono accedere a valide terapie curative come la chemioterapia ad alte dosi seguita dal trapianto autologo di cellule staminali (ASCT). La chemioterapia combinata con bortezomib è efficace nell’ottenere una risposta ematologica e d’organo in pazienti non idonei all’ASCT5, anche se la sopravvivenza globale nella CA avanzata è ancora bassa6. In casi selezionati, il trapianto di cuore (HTx) seguito da ASCT potrebbe rappresentare l’approccio adatto per ottenere una sopravvivenza a lungo termine e, talvolta, il pieno recupero dalla malattia ematologica7,8. Pertanto, è essenziale un’accurata selezione dei pazienti e una stratificazione del rischio.

Caso Clinico

La paziente è una donna di 50 anni con una storia recente di astenia, dispnea da sforzo e aumento di peso, con segni di grave insufficienza cardiaca di nuova insorgenza. Alla presentazione è ipotesa, con un soffio olosistolico meglio udibile all’apice cardiaco, rantoli polmonari bilaterali, edema degli arti inferiori e macroglossia. In anamnesi patologica remota risulta solo un intervento chirurgico al tunnel carpale bilaterale.

La diagnosi differenziale si pone con le cardiomiopatie, le cardiopatie ipertensive, ischemiche e valvolari. La macroglossia e la sindrome del tunnel carpale suggeriscono una malattia infiltrativa3, mentre il soffio cardiaco avalla la possibilità che una grave malattia valvolare possa precipitare l’insufficienza cardiaca acuta. L’assenza di fattori di rischio cardiovascolare rende improbabile la diagnosi di cardiopatia ischemica.

Fig. 1 (Figura chiave): Principali test diagnostici utilizzati per la diagnosi di amiloidosi cardiaca: elettrocardiogramma con normali voltaggi del QRS ed evidenza di pseudonecrosi (A), ecocardiografia dimostrante ipertrofia biventricolare, ispessimento valvolare ed effusione pericardica (B), grado 1 Perugini alla scintigrafia con difosfonato (C), e infiltrato plasmacellulare atipico con catene leggere lambda libere alla biopsia del midollo osseo (D).

L’ECG mostra un ritmo sinusale con normali voltaggi e onde Q anteriori e inferiori (Figura 1A) non coerenti con il grado di ipertrofia del ventricolo sinistro (LV) (max 17 mm); all’ecocardiografia, si evidenziano normale cinetica (Figura 1B), disfunzione diastolica di grado III, GLS -14%, un pattern di “apical sparing”, lembi ispessiti della valvola mitrale, ipertrofia del ventricolo destro e vena cava inferiore dilatata.

Agli esami di laboratorio emergono BNP elevato (618 pg/L, v.n.100 pg/L) e una lieve troponinosi T (0,34 ng/mL, v.n. 0,25 ng/mL). La coronarografia esclude malattia coronarica.

Il sospetto di CA è elevato; viene seguito l’algoritmo di Gillmore9: le catene leggere libere λ sieriche (FLC) sono aumentate (108 mg/dL, delta FLC 93 mg/dL) e alla scintigrafia con difosfonato emerge un l’uptake miocardico Perugini grado 1 (Figura 1C). Si conferma istologicamente, con biopsia del grasso addominale, la diagnosi di AL-CA. Emerge una diagnosi concomitante di smoldering mieloma micromolecolare di tipo λ, sulla base del 22% di plasmacellule clonali alla biopsia del midollo osseo, senza segni di danno d’organo avanzato (Figura 1D).
Il coinvolgimento cardiaco avanzato (stadio cardiaco Mayo III)10 e il mieloma micromolecolare controindicano l’ASCT come terapia iniziale.
Pertanto, è stata avviata terapia citoriduttiva a basse dosi con ciclofosfamide, bortezomib e desametasone (CyBorD). Nel decorso, vi sono state frequenti riammissioni per scompenso cardiaco con deterioramento emodinamico. Sono stati rilevati un indice cardiaco di 2,5l/min/m2 e un consumo di ossigeno gravemente ridotto durante l’esercizio (VO2) picco (15,4 ml/kg/min, 50% valore previsto) con ridotta efficienza ventilatoria al test da sforzo cardiopolmonare.
Dopo un ciclo CyBorD, le strategie terapeutiche sono state discusse collegialmente, considerando tre variabili principali: giovane età, grave coinvolgimento cardiaco con prognosi infausta e assenza di significativo coinvolgimento extracardiaco, sistematicamente studiato. La paziente è stata giudicata un buon candidato per HTx seguito da ASCT. Pertanto, entro due mesi dalla diagnosi, è entrata in lista d’attesa per HTx. Ha avuto due episodi sincopali senza chiari prodromi, per cui è stato impiantato un defibrillatore in prevenzione primaria come ponte a HTx.

Discussione

Abbiamo riportato un caso insolito di AL-CA che ha lasciato le liste trapianto (sia cardiaca che ASCT) per risposta ematologica completa persistente (>3 anni) ed eccezionale miglioramento cardiaco in chemioterapia CyBorD. Da questo caso emergono i seguenti elementi:
(1) Mantenere un alto sospetto di CA nei pazienti con SC con FE conservata e red flags specifiche è essenziale per raggiungere una diagnosi precoce e iniziare terapie con impatto sulla sopravvivenza.
(2) La selezione della migliore strategia terapeutica si basa su un’accurata stratificazione prognostica multidisciplinare e quantificazione del carico di malattia cardiaca ed extracardiaca, che massimizza le possibilità di sopravvivenza.
(3) Il trattamento per LA deve essere personalizzato per il paziente.

Il sospetto clinico di CA sorge dall’integrazione di dati clinici, ecocardiografici e laboratoristici. In questo caso, la discrepanza tra i voltaggi del QRS all’ECG e il grado di ipertrofia del LV all’ecocardiografia, la severa disfunzione diastolica con il pattern “apical sparing”, la troponina persistentemente elevata e la storia di intervento al tunnel carpale bilaterale sono stati indizi di rilievo per la diagnosi. 2,11–13

Fig. 2 Rilievi ecocardiografici pre (colonna di sinistra) e post (colonna di destra) chemioterapia con CyBorD: visione quattro camere (A), mitral inflow posterior wall (B) e global longitudinal strain (C)

La stratificazione prognostica dei pazienti con AL-CA è stimata da punteggi dedicati che integrano i valori di NT-proBNP, troponina e FLC10 che possono essere utilizzati per monitorare la risposta al trattamento14. Alla nostra paziente è stato assegnato un punteggio Mayo stadio III, che delinea un coinvolgimento cardiaco avanzato con alto tasso di mortalità precoce. Spesso i pazienti con queste caratteristiche non hanno abbastanza tempo per rispondere alla terapia.
Nella fase acuta dell’amiloidosi AL, danno cardiaco e disfunzione derivano dalla deposizione miocardica di fibrille amiloidi e dall’effetto tossico delle catene leggere sui cardiomiociti, elementi reversibili con un’efficace chemioterapia. Pertanto, la sopravvivenza globale nell’amiloidosi AL dipende della risposta ematologica. La chemioterapia è diretta verso il clone sottostante e mira a sopprimere la produzione di FLC che causano disfunzione d’organo2. Attualmente, CyBorD è lo standard di cura per l’amiloidosi AL, e fornisce una risposta ematologica parziale (riduzione ≥50% delle concentrazioni di FLC) e una risposta cardiaca (riduzione >30% o >300 pg/mL di NT-proBNP) rispettivamente nel 60% e nel 25% circa dei pazienti trattati6,15. La sopravvivenza globale a 5 anni è dell’80%, con una durata mediana della risposta di 4,5 anni per i pazienti che hanno raggiunto una risposta dopo trattamento con solo CyBorD, in modo simile ai pazienti trattati in sequenza con CyBorD e ACST5. Comunemente, il regime CyBorD è difficilmente tollerato anche a basse dosi in presenza di ipotensione e SC gravemente sintomatico.

Nel caso presentato, la paziente non era idonea all’ASCT a causa di una grave infiltrazione amiloide cardiaca ed è stata inserita in lista HTx alla luce dell’assenza di un coinvolgimento extracardiaco significativo, dell’assenza di altre comorbidità e della giovane età. Sebbene l’HTx consenta l’ASCT e possa conferire un vantaggio in termini di sopravvivenza7,8, comporta un tasso non trascurabile di complicanze, inclusa la morte, e può essere eseguito solo in pochi centri di riferimento. Da segnalare che il corretto timing per ASCT dopo HTx è tutt’ora oggetto di studio. In una recente serie di trapianti, alcuni pazienti non hanno avuto il tempo di ricevere ASCT dopo HTx a causa della progressione della malattia ematologica16; pertanto, questo trattamento è considerabile solo in pazienti ben selezionati senza amiloide extracardiaca significativa in cui si prevede che l’ASCT conferisca un beneficio sostanziale in termini di sopravvivenza, con un rischio relativamente basso di mortalità correlata al trattamento17.

Inaspettatamente, nella nostra paziente il regime CyBorD a basse dosi è risultato efficace nell’ottenere una risposta ematologica completa e un’impressionante risposta cardiaca, con un buono stato clinico a lungo termine. Tuttavia, nella gestione della nostra paziente sono stati essenziali rivalutazioni cliniche frequenti, monitoraggio rigoroso della risposta ai trattamenti e aggiustamenti terapeutici.

Fig.3 Management del caso clinico

La combinazione di daratumumab e bortezomib si è recentemente dimostrata efficace nel trattamento dell’amiloidosi AL, rendendo promettente una futura ridefinizione dello standard di cura nell’amiloidosi AL 18,19. Sono necessarie ulteriori ricerche, considerando che i progressi nella farmacoterapia dell’amiloidosi AL avranno un grande impatto sulla gestione clinica dei pazienti, riducendo possibilmente la necessità di ASCT.

Conclusioni

La diagnosi precoce del coinvolgimento cardiaco in AL fornisce il più ampio accesso alle opzioni terapeutiche, migliorando la sopravvivenza. L’HTx può essere considerato prima dell’ASCT in casi rigorosamente selezionati quando l’AL-CA avanzato preclude l’idoneità all’ASCT. È interessante notare che nei pazienti non idonei all’ASCT, la chemioterapia con regime CyBorD, anche a basse dosi, può portare a una remissione duratura della malattia con un’eccellente risposta cardiaca.

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