Un raro caso di endocardite di Loeffler: il colpevole che non sospetti

AUTORI: M. Pesolo, M. Gravina, F. Mautone, G. Goffredo, G. Casavecchia, N.D. Brunetti

Università degli Studi di Foggia

S.C. Universitaria di Cardiologia, Policlinico Foggia

ABSTRACT. L’ Endocardite di Loeffler è una forma di cardiomiopatia restrittiva rara, caratterizzata da ipereosinofilia e ispessimento fibroso dell’endocardio, associati a trombosi ventricolare, che può portare a complicazioni cardiovascolari come l’insufficienza cardiaca e il tromboembolismo. Può manifestarsi con edema, dispnea e dolore toracico ed è spesso causata da reazioni immunologiche, neoplasie come leucemie e infezioni parassitarie [1,2]. La clinica, gli esami ematici e l’ecocolordopplercardiaco transtoracico pongono il sospetto ma solo attraverso l’approccio multimodale e multiparametrico della RMN cardiaca è possibile eseguire una corretta diagnosi, terapia e valutazione di efficacia del trattamento [3].

CASO CLINICO. La protagonista del caso clinico presentato dalla nostra Scuola di Specializzazione è una donna di 44 anni, dislipidemica, senza precedenti cardiologici di rilievo, con storia di asma bronchiale dall’età giovanile e positività da alcuni anni al fenomeno di Raynaud alle mani.

Per la comparsa di dolore toracico associato a dispnea per sforzi lievi e febbre, veniva ricoverata presso l’Unità di Terapia Intensiva Coronarica del Policlinico Riuniti di Foggia.

Figura 1. Ecocardiogramma transtoracico all’ingresso: Ispessimento apicale del ventricolo sinistro. Insufficienza mitralica di grado moderato. E/A >>1, pattern diastolico di tipo restrittivo.

All’obiettività emergeva un soffio sistolico 2/6 mesocardico mentre l’elettrocardiogramma mostrava una tachicardia sinusale con delle anomalie della ripolarizzazione ventricolare (onde T negative) in sede antero-laterale. Agli esami ematici si riscontravano valori di HB 9.6 g/dl;  WBC 13.300 /dl;  EOS 4,750 / dl (35.7%) (v.n. 1-4%);  VES 70 mm/l h; ANA 6.3(v.n. <3);  anti-CCP 6.1 (v.n. <5);  p-ANCA 19.3(v.n. <2) ; c-ANCA 2(v.n.<2),anti -DNA e anti-ENA negativi; enzimi cardiaci nella norma. Veniva inoltre eseguito uno striscio periferico con riscontro di Neutrofili 52%; Eosinofili 32%; Linfociti 10%; Mastociti 6%. La TC del torace mostrava un quadro di diffusa interstiziopatia. L’ ecocardiogramma invece mostrava un marcato ispessimento apicale in assenza di anomalie della cinetica globale e segmentaria con una FEVS del 55% e presenza al doppler di una insufficienza mitralica di grado moderato e di un pattern diastolico di tipo restrittivo [Figura 1]. Veniva quindi eseguita una Risonanza Magnetica cardiaca (RMC) che mostrava nelle sequenze CINE l’ispessimento apicale non solo a livello del ventricolo sinistro ma anche a livello del ventricolo destro, con una tendenza all’obliterazione sistolica. Nelle sequenze per la caratterizzazione tissutale T2 era presente edema diffuso a livello ventricolare sinistro e a apicale destro, mentre le sequenze T1 precoci dopo somministrazione del m.d.c mostravano un’area di ipoperfusione a livello apicale sinistro compatibile con la presenza di una stratificazione trombotica subendocardica. Le sequenze PSIR per lo studio del Late Gadolinium Enhancement mostravano un quadro di iperintensità di segnale a livello endocardico ventricolare sinistro e apicale destro, segno di fibrosi endocardica diffusa. Era presente inoltre un’area di ipointensità a livello apicale del ventricolo sinistro che confermava la presenza della formazione trombotica [Figura 2].

Figura 2. RMN all’ingresso: Edema diffuso ventricolo sx e dx in T2. Enhancement diffuso endocardico ventricolo sx e apice ventricolo dx al LGE. Formazione trombotica subendocardica apicale sx.

DISCUSSIONE.  Il quadro di risonanza, associato ai dati clinici, era suggestivo di Endocardite di Loeffler (o cardiopatia eosinofila) [4], una malattia la cui storia naturale consta di tre fasi. Una prima fase acuta, o necrotica, in cui prevale il danno subendocardico da infiltrazione e degranulazione eosinofila. Una fase subacuta, o trombotica, in cui si verifica l’apposizione di materiale trombotico a livello del subendocardio danneggiato. Infine, una fase cronica, o fibrotica, in cui i tessuti danneggiati vengono sostituiti da fibrosi; questo processo può compromettere il riempimento del ventricolo sinistro ed evolvere in una cardiopatia restrittiva [5].

Pertanto veniva impostata una terapia con corticosteroidi, metotrexate e warfarin, con remissione della sintomatologia [6]. Durante il follow-up, la  paziente non riferiva ulteriori episodi di dolore toracico. Al controllo eseguito dopo cinque mesi di terapia, i valori di eosinofili e TnIhs risultavano nei limiti della norma. L’ECG mostrava una parziale regressione delle anomalie della ripolarizzazione documentate precedentemente. La RMC documentava la notevole riduzione dell’ispessimento apicale ventricolare e la completa risoluzione della formazione trombotica, tuttavia permaneva ancora una lieve zona di LGE subendocardico circonferenziale a livello dei segmenti medio-apicali [Figura 3].

Figura 3. RMN follow up: Riduzione ispessimento parietale alle sequenze cine. Lieve enhancement subendocardico al LGE. Assenza di formazione trombotica precedentemente descritta.

CONCLUSIONI. L’Endocardite di Loeffler è una forma rara di cardiomiopatia restrittiva, caratterizzata da ipereosinofilia ed ispessimento fibroso dell’endocardio. L’ecocolordopplergrafia cardiaca trans-toracica, metodica di imaging più comunemente usata per la diagnosi, permette di evidenziare l‘ispessimento parietale apicale, l’insufficienza mitralica in caso di coinvolgimento valvolare e un pattern diastolico restrittivo all’esame Doppler. La RM cardiaca tuttavia, resta una metodica fondamentale per la diagnosi di Endocardite di Loeffler e quindi per la corretta scelta terapeutica, poiché ci permette non solo di caratterizzare il tessuto ma, di valutare anche l’estensione delle lesioni sub-endocardiche e la precisa definizione della formazione trombotica endocavitaria. Inoltre ci permette di valutare l’efficacia del trattamento nel follow-up nei mesi a seguire.

BIBILIOGRAFIA

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SCN5A: Un fenotipo meno conosciuto di disturbo di conduzione geneticamente determinato

Dott.ssa Chiara Bianchi, Dott.ssa Martina Vitali, Dott. Marco Micillo, Dott. Francesco Vitali

Università degli studi di Ferrara
Azienda Ospedaliero-Universitaria di Ferrara – Arcispedale Sant’Anna

Presentiamo il caso di un paziente di 26 anni, senza comorbidità, con analisi genetica positiva per una mutazione del gene SCN5A, che va incontro ad un episodio di marcata instabilità emodinamica con temporanea perdita di coscienza e di polso. Il quadro elettrocardiografico del paziente e l’assenza di una cardiopatia strutturale depongono per un disturbo “atipico” del sistema di conduzione cardiaco associato alla mutazione del gene SCN5A. In considerazione della storia clinica e della mutazione di cui il paziente è portatore, si è deciso di procedere all’impianto di un pacemaker bicamerale definitivo.

Un ragazzo di 26 anni accede in Pronto Soccorso per un fugace episodio sincopale post-minzionale avvenuto nelle prime ore del mattino. Poco dopo aver ripreso conoscenza ha un secondo svenimento più prolungato associato a tremori diffusi. Viene soccorso dal padre, un infermiere del 118 che, non riuscendo a sentire il polso del figlio, comincia le manovre di rianimazione cardiopolmonare. Dopo circa mezzo minuto si verifica una ripresa spontanea di coscienza associata a flushing del volto e respiro russante. In quel momento viene documentata dal padre una frequenza cardiaca ritmica di circa 33-34 bpm.
All’elettrocardiogramma registrato in Pronto Soccorso il paziente presenta un blocco atrioventricolare di primo grado (intervallo PR: 280 ms) ed un blocco di branca destra completo (QRS: 160 ms).

Fig. 1: ECG a 12 derivazioni. Ritmo sinusale 73 bpm, blocco atrioventricolare di I grado, blocco di branca destra completo, alterazioni secondarie della ripolarizzazione ventricolare.


Raccogliamo l’anamnesi del ragazzo: è sempre stato bene, non ha particolari fattori di rischio cardiovascolare e fa molta attività sportiva. Gli è già capitato un’altra volta di perdere conoscenza per pochi secondi, circa due anni fa, durante un episodio di dolore addominale.
Il paziente è accompagnato da sua madre, una maratoneta professionista che ci racconta di avere impiantato un pacemaker da giovane a causa di un disturbo di conduzione per la quale è seguita insieme al figlio al nostro ambulatorio di Cardiogenetica. I due hanno eseguito un’analisi genetica un paio d’anni fa risultata positiva per una mutazione del gene SCN5A. Il figlio aveva eseguito anche un monitoraggio ECG-Holter delle 24 ore che testimoniava un ritmo sinusale con fasi notturne di bradicardia sinusale a 30 bpm circa e di blocco atrioventricolare di secondo grado tipo I. Aveva inoltre eseguito un ecocardiogramma transtoracico risultato normale ed una risonanza magnetica cardiaca che non evidenziava segni di cardiopatia strutturale, di metaplasia adiposa o di late gadolinium enhancement. Il suo intervallo QT si era sempre mantenuto nei limiti di norma ed il suo tracciato non aveva mai manifestato pattern di Brugada (nemmeno eseguendo l’ECG con il posizionamento degli elettrodi precordiali nel II, III e IV spazio intercostale).
Una volta raccolta questa anamnesi sospettiamo che il paziente abbia avuto una sincope cardiogena da blocco atrioventricolare parossistico. Ricoveriamo il ragazzo con monitoraggio telemetrico: durante l’osservazione non si verificano eventi aritmici ma solo occasionali tratti di bradicardia notturna con frequenza media di 40 bpm.
In considerazione della storia clinica e della mutazione di cui il paziente è portatore decidiamo di procedere all’impianto di un pacemaker bicamerale definitivo. Viene eseguita una stimolazione di branca e si decide di posizionare il dispositivo in sede sottomuscolare. Il dispositivo viene programmato in modalità AAI-DDD 35-150 bpm, con MVP attivo (per la natura attualmente parossistica dei blocchi), gestione automatica delle catture in entrambe le camere e monitoraggio remoto.
Attualmente il nostro paziente sta bene e ha ripreso la sua attività fisica regolare. Al controllo del device eseguito ad un mese dalla dimissione le percentuali di Atrial pacing sono < 0,1% e quelle di Ventricular pacing di circa 0.6%; i dati si confermano tali anche al monitoraggio remoto a quattro mesi dall’impianto. Tenendo conto del meccanismo patogenetico di malattia è verosimile che, nei prossimi anni, potremmo rilevare un aumento progressivo della percentuale di stimolazione del dispositivo.

Fig. 2: Resoconto del monitoraggio remoto a quattro mesi dall’impianto del pacemaker. Si evidenzia come le percentuali di Atrial Pacing siano < 0,1% e le percentuali di Ventricular Pacing di circa 1,7%.


Questo disturbo di conduzione geneticamente determinato (chiamato talvolta “disturbo progressivo familiare della conduzione cardiaca”, “disturbo di conduzione giovanile” o “sindrome di Lev-Lenègre”) è una patologia in cui la conduzione cardiaca viene progressivamente ostacolata nel tempo dalla fibrosi progressiva del sistema His-Purkinje. Ha un’età d’esordio variabile e si manifesta all’ECG con prolungamento progressivo dell’onda P, dell’intervallo PR e del segmento QRS, esitando talvolta in blocchi di branca destra o sinistra e/o blocchi atrioventricolari ingravescenti fino al blocco completo; può decorrere in modo asintomatico oppure manifestarsi con episodi di dispnea, vertigini, dolore addominale, oppure con sincopi a riposo o durante l’esercizio fisico, scompenso cardiaco o morte cardiaca improvvisa.
Questa sindrome è tipicamente, anche se non solo, associata a mutazioni loss of function del gene SCN5A. Tale gene si trova sul braccio corto del cromosoma 3 e codifica per la subunità α del canale del sodio voltaggio-dipendente che genera la corrente di depolarizzazione rapida (INa) responsabile della fase 0 del potenziale d’azione dei miocardiociti. La trasmissione è autosomica dominante a penetranza incompleta ed espressività variabile. Siamo soliti associare le mutazioni di questo gene alla Sindrome di Brugada, ma in realtà SCN5A presenta un’importante eterogeneità nelle sue mutazioni, che possono cambiare in diversi modi l’espressione del canale e le sue proprietà biofisiche, attraverso una loss of function oppure un gain of function. Ciò si traduce in molteplici possibili fenotipi clinici correlati alle sue mutazioni: la Sindrome di Brugada, la Sindrome del QT lungo sottoforma LQT-3, i disturbi di conduzione giovanili, la fibrillazione atriale idiopatica, la malattia del nodo del seno, l’arresto sinusale e la cardiomiopatia dilatativa. È inoltre possibile apprezzare quadri clinici di sovrapposizione (tipici delle mutazioni che provocano anche la Sindrome di Brugada) o di carattere aspecifico.

BIBLIOGRAFIA

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2. Wilde AAM, Amin AS. Clinical Spectrum of SCN5A Mutations: Long QT Syndrome, Brugada Syndrome, and Cardiomyopathy. JACC Clin Electrophysiol. 2018 May;4(5):569-579. doi: 10.1016/j.jacep.2018.03.006. Epub 2018 May 2. PMID: 29798782.

Shock cardiogeno come prima manifestazione di cardiotossicità indotta da antracicline

Cristina Conte1, Alessia d’Aiello2, Francesco Cribari1, Marco del Buono2, Gianluigi Saponara2, Cristina Aurigemma2, Daniela Pedicino2, Tommaso Sanna2

1 Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma, Italia
2 Dipartimento di Scienze Cardiovascolari e Toraciche, Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS, Roma, Italia

ABSTRACT: Numerosi farmaci citotossici sono disponibili per i pazienti affetti da patologie oncologiche: se da una parte i recenti progressi terapeutici sono associati ad una maggiore aspettativa di vita, ciascun farmaco può provocare una vasta gamma di effetti collaterali, che aumentano la morbilità e la mortalità di questi pazienti.  Le patologie cardiovascolari sono tra più le frequenti e drammatiche manifestazioni avverse dei farmaci chemioterapici: quando manifeste, esse prevedono l’interruzione di terapie potenzialmente salvavita o esitano nell’insufficienza cardiaca.

CASO CLINICO: Una donna di 50 anni con recente diagnosi di carcinoma mammario si è presentata presso il Pronto Soccorso (PS) del nostro Nosocomio per astenia, vomito e dispnea; tre giorni prima, le era stata somministrata la prima dose di chemioterapia neoadiuvante (epirubicina + ciclofosfamide). L’ecocardiogramma risultava nei limiti della norma. All’ammissione in PS la paziente si presentava ipotesa, tachicardica, con confusione mentale e sudorazione algida. L’ ECG 12 D mostrava tachicardia sinusale con diffuso sopra-slivellamento del tratto ST e diffusi bassi voltaggi del QRS (Figura 1);

Figura 1: ECG 12 derivazioni all’ingresso in Pronto Soccorso: tachicardia sinusale, diffuso sopraslivellamento del tratto ST, diffusi bassi voltaggi del QRS.

l’ecocardiogramma bed-side mostrava una severa disfunzione del ventricolo sinistro (FE Biplano 15%) con segni di bassa gittata sistolica (LVOT VTI 6 mm), significativa ipertrofia parietale ventricolare sinistra, pressioni telediastoliche ventricolari sinistre aumentate (E/e’ 26) (Figura 2).

Figura 2: Ecocardiogramma Transtoracico all’ingresso: severa disfunzione contrattile del ventricolo sinistro, bassa gittata sistolica (LVOT VTI 6 mm), significativa ipertrofia parietale ventricolare sinistra (spessore SIV 16 mm, spessore parete posteriore 15 mm), lieve versamento pericardico circonferenziale, come per edema citotossico in fase acuta.

L’emogas analisi arterioso mostrava severa iperlattacidemia (Lac 12 mmol/L). Veniva posta la diagnosi di shock cardiogeno ed è stata iniziata terapia di supporto con alte dosi di dobutamina e noradrenalina ev. Gli esami di laboratorio, in quadro di ipoperfusione sistemica, hanno confermato il coinvolgimento multiorgano, in assenza di rialzo degli indici di infiammazione e/o infezione. Lo studio coronarografico ha escluso malattia aterosclerotica coronarica e la ventricolografia ha confermato la presenza di elevate pressioni telediastoliche ventricolari sinistre (LVEDP 29 mmHg).  Le condizioni emodinamiche della paziente sono peggiorate nonostante la terapia vasopressoria massimale, per cui si è iniziato supporto meccanico con IMPELLA CP. È stata avviata anche la soministrazione di alte dosi di corticosteroidi (metilprednisolone 10 mg/kg per tre giorni, con successivo scalaggio). Dopo 24 h, si è ottenuta la stabilità emodinamica e la completa clearance dei lattati. La successiva comparsa di mielotossicità con marcata piastrinopenia (conta piastrinica minima 16 000*10 9/L) ha complicato ulteriormente il decorso clinico e nessuna terapia anticoagulante, se non quella contenuta nella soluzione purge dell’IMPELLA, è stata somministrata. La risonanza magnetica cardiaca ha confermato la presenza di edema citotossico e fibrosi microscopica diffusi, con potenziamento di segnale nelle sequenze T2 pesate ed aumento del T2 Mapping, T1 Mapping e del volume extracellulare. Le condizioni emodinamiche della paziente sono progressivamente migliorate, consentendo la rimozione del supporto meccanico. La paziente è stata sottoposta ad ecocardiogrammi transtoracici seriati, che hanno documentato il progressivo miglioramento della frazione d’eiezione del ventricolo sinistro (FE Biplano 38%) e la riduzione dei valori delle pressioni telediastoliche (E/e’ 9). Il supporto farmacologico inotropo è stato progressivamente ridotto sino alla completa sospensione e gradualmente è stata introdotta la terapia medica orale anti-scompenso.

DISCUSSIONE: Il caso clinico descrive un episodio di disfunzione cardiaca acuta molto grave indotta da terapia citotossica in una donna giovane con probabilità clinica pre-trattamento di tossicità cardiovascolare molto bassa. [1] Le antracicline (doxorubicina, daunorubicina, epirubicina, idarubicina) rappresentano i principali farmaci antineoplastici associati a cardiotossicità.
La cardiotossicità acuta è un evento raro che si sviluppa in < 1% dei pazienti, prevalentemente subito dopo l’infusione del farmaco [2]: quando si manifesta, è il risultato di una forma di ipersensibilità scatenata da un fenomeno allergico, immunologico o idiosincratico; si caratterizza per una risposta infiammatoria dose-indipendente; richiede la sospensione immediata del farmaco imputato e le strategie terapeutiche sono limitate alle terapie di supporto standard [3].
Si definisce tossicità acuta l’insorgenza, nei 14 giorni a seguire l’infusione del farmaco, di disfunzione ventricolare sinistra associata ad insufficienza cardiaca acuta e/o cardiopatia dilatativa, aritmie transitorie (tachicardia sopraventricolare, anomalie aspecifiche del tratto ST e dell’onda T, sindrome mio-pericarditica) e/o morte cardiaca improvvisa [4]. La letteratura in merito è piuttosto limitata e ciò che conosciamo deriva principalmente da case reports [5].
Il principale meccanismo molecolare imputato è il danno diretto dei miomiocardiociti cardiociti insieme ad un’aumentata produzione di radicali dell’ossigeno [6]. Sono state, quindi, descritte te numerose i varianti genetiche che sembrano essere associate ad un’aumentata suscettibilità per lo sviluppo della cardiotossicità da farmaci chemioterapici: esse includono geni che codificano per proteine implicate nel trasporto e nel metabolismo delle antracicline, geni implicati nella sintesi dei radicali dell’ossigeno e geni implicati nella genesi di altre cardiomiopatie [7]. Sebbene la maggior parte di essi sia correlato ad un’aumentata suscettibilità per lo sviluppo di cardiotossicità cronica, ci si sta chiedendo se essi possano rivestire un ruolo anche nella cardiotossicità acuta [7].
La previsione della cardiotossicità da antraciclina rimane, quindi, una sfida: in tal senso, i dati emergenti soprattutto nella popolazione oncologica pediatrica insieme ad una maggiore conoscenza dei dati genetici, potrà aiutare a creare un modello di previsione integrato per una migliore stratificazione dei pazienti e per la scelta del farmaco più adeguato, contenendo gli effetti avversi dei farmaci chemioterapici e massimizzando i benefici delle terapie oncologiche [8].

CONCLUSIONI: La cardiotossicità acuta è una condizione clinica rara ma possibile in ogni classe di rischio clinico basale; essa è, inoltre, associata a gravi conseguenze emodinamiche, potenzialmente fatali.  La previsione della cardiotossicità da antraciclina rimane un’incognita: è necessaria la stratificazione dei pazienti attraverso classi di rischio integrative di dati clinici, molecolari e genetici.

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Utilizzo della Cardiac Contractility Modulation e della Mitraclip in paziente con scompenso cardiaco a frazione moderatamente ridotta ed insufficienza mitralica severa

A. Bellantoni, A. Lucchino, G. Scalzi, L. R. Romano, S. Sorrentino, I. Aquila, A. Polimeni, A. Mongiardo, C. Indolfi

Scuola di Specializzazione in Malattie dell’Apparato Cardiovascolare, Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro

ABSTRACT

Il seguente caso descrive l’approccio multimodale utilizzato per un paziente con insufficienza mitralica severa e sintomi da scompenso cardiaco refrattari alla terapia medica massimale. Inizialmente, la strategia terapeutica ha previsto la correzione del vizio valvolare per via percutanea attraverso il posizionamento di tre Mitraclip. In seconda battuta, dato il ripresentarsi della sintomatologia ed alla luce delle caratteristiche eco ed elettrocardiografiche del paziente, si è optato per l’utilizzo della Cardiac Contractility Modulation, con beneficio clinico al follow-up a lungo termine.

CASO CLINICO

Presentiamo il caso di un paziente di 78 anni, giunto alla nostra attenzione per sintomi da scompenso cardiaco di classe NYHA 3-4 (dispnea da sforzi lievi e talora anche a riposo) nonostante terapia medica massimale. In anamnesi pregressa abitudine tabagica, ipertensione arteriosa, fibrillazione atriale permanente, insufficienza renale cronica in trattamento conservativo, ipotiroidismo, pregresso impianto di PM bicamerale e chiusura chirurgica di auricola sinistra. Durante la degenza si eseguivano inizialmente gli esami clinico-strumentali di routine, tra cui l’ecocardiogramma che documentava: ventricolo sinistro nei limiti per dimensioni cavitarie e spessori parietali, lieve ipocinesia diffusa con riduzione degli indici di funzione sistolica ventricolare sinistra (FE 45%), severa dilatazione biatriale, insufficienza mitralica di grado severo. All’ECG si evidenziava ritmo da fibrillazione atriale a risposta ventricolare media 60 bpm, durata del QRS nei limiti di norma, anomalie diffuse della fase di ripolarizzazione ventricolare. Essendo il paziente già in terapia farmacologica massimale, ed alla luce delle numerose comorbidità, l’Heart Team decideva di procedere con la correzione dell’insufficienza mitralica attraverso riparazione transcatetere edge-to-edge. La procedura veniva portata a termine con successo, e venivano impiantati tre device Mitraclip con buon risultato finale ed insufficienza valvolare residua di grado lieve-moderato.

Alcuni mesi dopo, il paziente tornava alla nostra attenzione per riacutizzazione della sintomatologia dispnoica e scarsa tolleranza agli sforzi anche lievi. L’esame ecocardiografico documentava: FE 45%, lieve ipocinesia diffusa, severa dilatazione biatriale, aumento delle dimensioni delle sezioni destre, device Mitraclip in sede con insufficienza residua di grado lieve-moderato, insufficienza tricuspidale di grado moderato. Dopo la stabilizzazione del quadro clinico, si decideva di procedere ad impianto di dispositivo per la modulazione della contrattilità cardiaca (CCM), data l’insufficienza cardiaca a frazione di eiezione moderatamente ridotta e la durata del QRS all’ECG entro i limiti di norma. Al follow-up ad un anno il paziente mostrava un miglioramento del quadro sintomatologico e non si rendevano necessari nuovi ricoveri per scompenso cardiaco.

Figura 1 – Al termine dell’impianto sono ben visibili gli elettrocatateri e le Mitraclip
Figura 2 – Proiezione ecocardiografica sottocostale

DISCUSSIONE

La cardiac contractility modulation è una strategia terapeutica indicata per pazienti con scompenso cardiaco refrattario alla sola terapia medica ottimizzata, che presentano una FE compresa tra il 25% ed il 45% ed una durata normale del QRS. Il suo meccanismo d’azione consiste nell’erogazione di impulsi durante il periodo refrattario assoluto del potenziale cardiaco: questi stimoli bifasici ad alto voltaggio (7,5 V) e lunga durata (circa 20 ms) non causano l’insorgenza di nuovi potenziali d’azione, ma agiscono a livello cellulare e molecolare portando ad una upregulation dei canali del Calcio tipo L, aumentando l’afflusso intracellulare di questo ione durante la successiva fase di depolarizzazione. Vi è inoltre evidenza di una azione a lungo termine a livello di espressione genica di numerose molecole come SERCA2a e RyR2, migliorando il metabolismo del Calcio e la contrattilità cardiaca e riducendo il remodeling ventricolare. Studi randomizzati e registri osservazionali hanno dimostrato effetti positivi sulla tolleranza all’esercizio e sulla qualità di vita dei pazienti trattati, espressi come miglioramento nel consumo di ossigeno al test cardiopolmonare, nel 6-min walking test e nel Minnesota Living With Heart Failure Questionnaire score. Un minor numero di informazioni è disponibile riguardo la sopravvivenza a lungo termine, ma alcuni registri osservazionali suggeriscono un possibile effetto benefico di questa terapia anche sulla mortalità. Nella maggior parte degli studi effettuati, inoltre, l’efficacia della CCM risultava più significativa nel sottogruppo di pazienti con FE compresa tra 35% e 45%.

Il paziente in questione presenta un caso limite di trattamento multimodale dell’insufficienza cardiaca. Alla luce delle numerose comorbidità e degli interventi terapeutici a cui era già stato sottoposto, la terapia medica ottimizzata non era sufficiente ad alleviarne la sintomatologia ed a migliorarne la qualità di vita. Si è deciso, pertanto, di intervenire innanzitutto correggendo il vizio valvolare mitralico per via percutanea. In seconda istanza, data la refrattarietà dei sintomi, la frazione di eiezione solo moderatamente ridotta e la durata del QRS nei limiti di norma, la strategia terapeutica ha incluso l’utilizzo della CCM, con l’obiettivo di contrastare il remodeling del muscolo cardiaco e di migliorare in ultima analisi la qualità di vita del paziente.

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Procedura combinata di chiusura dell’auricola sinistra e crioablazione di fibrillazione atriale guidata da minimalistic approach imaging

Autori: Marco Legnazzi 1,2, Francesco Scardaci 2, Andrea Porto 2, Emanuela Di Simone 2, Alessandro Di Giorgio 2, Salvatore Azzarelli 2, Salvatore Davide Tomasello 2, Vincenzo Argentino 2, Francesco Amico 2

Affiliazioni:

1 Divisione di Cardiologia, AOU Policlinico “G. Rodolico – San Marco”, Scuola di Specializzazione in Malattie dell’Apparato Cardiovascolare, Università degli Studi di Catania, Catania

2 Unità Operativa Complessa di Cardiologia con Emodinamica ed UTIC, Azienda Ospedaliera per l’Emergenza Cannizzaro, Catania

ABSTRACT: La chiusura percutanea dell’auricola sinistra è emersa come sicura ed efficace alternativa alla terapia anticoagulante, fino a guadagnarsi, nelle linee guida, una raccomandazione di classe II B per la prevenzione dello stroke in pazienti affetti da fibrillazione atriale con controindicazione all’anticoagulazione. L’ablazione transcatetere della fibrillazione atriale rappresenta una strategia efficace di controllo del ritmo, con varie classi di raccomandazione in base alle caratteristiche cliniche. In questo caso clinico, presentiamo un paziente ad elevato rischio emorragico, con frequenti episodi di fibrillazione atriale parossistica, refrattari alla terapia antiaritmica, sottoposto ad una procedura combinata: chiusura percutanea dell’auricola sinistra e isolamento delle vene polmonari con crioenergia, sotto guida ecografica con sonda endocavitaria utilizzata per via transesofagea.

CASO CLINICO

Figura 1: puntura transettale guidata da sonda ecografica ICE AcuNav inserita in esofago (proiezione “asse corto-like”).

Un paziente di 69 anni, iperteso, afferiva all’ambulatorio di Cardiologia del nostro ospedale. In anamnesi importante storia di turbe del ritmo: 3 anni addietro ablazione transcatetere di flutter atriale tipico comune, 6 mesi addietro sincopi recidivanti per bradicardia sinusale, per cui era stato sottoposto ad impianto di pacemaker bicamerale. Da allora lamentava frequenti episodi parossistici e fortemente sintomatici di fibrillazione atriale (FA), documentati da diverse registrazioni dinamiche dell’ECG secondo Holter. Nel follow-up ambulatoriale era stata impostata terapia anticoagulante con edoxaban e terapia antiaritmica massimale, dapprima con flecainide ed in seguito, data la scarsa risposta, con amiodarone, senza però ottenere beneficio in termini di riduzione numerica degli episodi di FA e di miglioramento della sintomatologia subiettiva.

All’ecocardiogramma, condotto in ritmo sinusale, si rilevava buona funzione contrattile globale e segmentaria con FEVS 55%, assenza di valvulopatie di rilievo, atrio sinistro ai limiti alti della norma (32 mL/mq). In considerazione della refrattarietà alla terapia medica e dell’assenza di evidenti alterazioni del substrato atriale, si programmava ablazione transcatetere con isolamento delle vene polmonari. Inoltre, il paziente presentava numerose comorbilità che delineavano un elevato rischio emorragico (HAS BLED score 4): linfoma a cellule B in fase di remissione post-splenectomia, epatopatia HBV-correlata, poliposi del colon con frequenti sanguinamenti e già sottoposta a polipectomia, 2 pregresse ospedalizzazioni per severa anemia in cui sono state necessarie trasfusioni di emazie concentrate. Sulla base del notevole rischio di sanguinamento, attribuibile a cause non reversibili, si è deciso di sottoporre il paziente anche a chiusura percutanea dell’auricola sinistra (LAAC – left atrial appendage closure), nella stessa seduta procedurale dell’ablazione di FA, per ridurre i tempi di ricovero e recupero.

Figura 2: ablazione con criopallone in vena polmonare. Si noti la sonda ecografica ICE in esofago.

Previo accesso venoso femorale destro e sedazione con midazolam e fentanyl, è stato introdotto catetere Siemens® AcuNav ICE (Intra Cardiac Echocardiography) 8F in esofago. Puntura transettale con guida fluoroscopica ed ecografica (Figura 1) e inizio della procedura con la crioablazione: isolamento delle vene polmonari (PVI – pulmonary vein isolation) con erogazioni di crioenergia con tecnica “single-shot” (singola erogazione per vena polmonare, Figura 2), con tempo di erogazione totale di 14 minuti. Al termine dell’ablazione, ritmo sinusale a FC di 65 bpm, con evidenza di blocco di conduzione efficace in entrata ed uscita delle vene polmonari. Si procedeva dunque a studio dell’anatomia dell’auricola con guida angiografica ed ecografica e veniva scelta e impiantata una bioprotesi Boston Scientific® Watchman FLX 20 mm. La durata totale della procedura è stata di 1 ora e 44 minuti. Il paziente veniva dimesso dopo 4 giorni in buone condizioni cliniche generali. Sulla base dei dati disponibili, per minimizzare il rischio di sanguinamento mantenendo una bassa incidenza di trombosi device-correlata, è stato scelto di somministrare per 1 mese edoxaban 60 mg e poi acido acetilsalicilico 100 mg per ulteriori 3 mesi. Al follow-up a 2 mesi, il paziente risulta essere in ritmo sinusale, senza alcun episodio di cardiopalmo, con auricola priva di stratificazioni trombotiche e leak residui.

DISCUSSIONE

In letteratura, molti trial randomizzati e studi osservazionali hanno confrontato la PVI con radiofrequenza e con criopalloni, perlopiù nel contesto di una prima procedura per FA parossistica, con risultati largamente sovrapponibili in termini di efficacia e sicurezza, con durata della procedura più corta per la crioablazione ma al prezzo di tempi di fluoroscopia maggiori. Alcuni studi però riportano una più breve ospedalizzazione e un minor tasso di complicanze con la crioablazione. Nell’ottica di minimizzare le complicanze e i tempi della procedura, già di per sé lunga poiché combinata con la LAAC, è stata scelta questa modalità di ablazione.

Figura 3: posizionamento finale della protesi Watchman FLX 20 mm (proiezione “2 camere-like”).

Il minimalistic approach, ovvero la guida ecografica della procedura attraverso sonda ICE endocavitaria inserita in esofago, è stato preferito perché il catetere dell’ICE, di 8 French di calibro, risulta molto più tollerabile rispetto alla sonda transesofagea classica e non impone l’anestesia generale, con possibilità di prediligere l’analgesia per aumentare la compliance del paziente, in una procedura combinata che per sua natura prevede una durata prolungata. L’uso “off-label” (transesofageo) dell’ICE non è stato ancora standardizzato e studiato su larga scala, non disponendo di dati randomizzati o di validi registri; esistono pochi case reports e case series con risultati promettenti in termini di efficacia e sicurezza. I limiti principali di tale approccio sono da riconoscere nell’elevato costo delle sonde monouso e nella variabilità della qualità delle immagini, non sempre comparabile a quella della sonda transesofagea classica, inoltre senza la possibilità di avere immagini biplanari o ricostruzioni 3D.

CONCLUSIONE

La procedura combinata di LAAC e crioablazione di FA è una strategia interessante, con il vantaggio di eseguire due interventi da singolo accesso e singola puntura transettale, con anestesia locale e blanda analgesia. Ha mostrato, in studi osservazionali e case series, buona efficacia, feasibility e sicurezza, in cui risulta fondamentale la selezione del paziente (indicazioni forti alla LAAC e all’ablazione). Il minimalistic approach da noi proposto per l’imaging ecografico procedurale, con sonda ICE utilizzata per via transesofagea, seppur off-label, aumenta la tollerabilità dell’intera procedura ed evita le possibili complicanze dell’anestesia generale, mantenendo spesso una buona qualità delle immagini per la guida della puntura transettale e per lo studio dell’anatomia dell’auricola.

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UNO STRANO CASO DI MALATTIA ARITMOGENA AD INTERESSAMENTO BIVENTRICOLARE…O FORSE NO?

Dott.ssa Antonella Accietto, Dott.ssa Maria Francesca Scuppa, Dott. Francesco Chietera, Dott. Mattia Garofalo, Dott.ssa Anna Corsini, Dott. Mario Sabatino, Prof. Carmine Pizzi

Alma Mater Studiorum Università di Bologna

IRCCS Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna – Policlinico di Sant’Orsola

ABSTRACT

Presentiamo il caso di un paziente di 49 anni, senza comorbidità, con segni e sintomi di scompenso cardiaco acuto complicato da instabilità aritmica ed emodinamica. La severità del quadro clinico è rispecchiata dal quadro strumentale, con elementi di marcata patologia, quasi patognomonici, sia all’ECG che all’ecocardiogramma che alla risonanza magnetica cardiaca. Il sospetto diagnostico di sarcoidosi viene confermato dalla PET e dalla biopsia endomiocardica. Peculiarmente l’interessamento è esclusivamente cardiaco. Grazie alla terapia antiaritmica, alla terapia farmacologica e meccanica dello scompenso cardiaco e alla terapia immunosoppressiva, il paziente supera la fase acuta per andare successivamente incontro a trapianto cardiaco.

CASO CLINICO

Un uomo di 49 anni eseguiva una valutazione cardiologica ambulatoriale presso altro centro per astenia e dispnea da sforzo ingravescente presenti da alcune settimane. Il paziente, ciclista amatoriale, non riferiva alcuna comorbidità di rilievo, antecedenti cardiologici o fattori di rischio cardiovascolare, inclusa familiarità per cardiopatia o morte improvvisa. L’ECG (Fig. 1) mostrava un ritmo sinusale con complessi QRS larghi e frammentati, inclusa un’evidente onda epsilon; un precedente tracciato, eseguito tre anni prima, risultava invece completamente nella norma. All’ecocardiogramma si evidenziava una dilatazione e disfunzione biventricolare, moderate a sinistra e lievi a destra, in assenza di valvulopatie maggiori o versamento pericardico.




Fig.1 ECG 12 derivazioni: ritmo sinusale con complessi QRS larghi e frammentati, inclusa un’evidente onda epsilon.

Si procedeva pertanto ad esecuzione di coronarografia, con riscontro di arterie coronarie indenni, e di RM cardiaca (Fig.2), che rivelava la presenza di diffuso danno miocellulare/interstiziale associato ad edema e a late gadolinium enhancement intramiocardico, con esteso coinvolgimento biventricolare (pattern ring-like). Alla luce di questi dati, veniva posto il sospetto diagnostico di cardiomiopatia aritmogena ad interessamento biventricolare, intrapresa bassa dose di beta-bloccante ed ACE-inibitore e programmato ricovero elettivo per impianto di defibrillatore (ICD) in prevenzione primaria.


Fig.2 Risonanza magnetica cardiaca con gadolinio: A) e B) immagini T2-pesate in asse lungo e asse corto con evidenza di edema biventricolare diffuso. C) e D) immagini acquisite tardivamente dopo somministrazione intravenosa di gadolinio con evidenza di late gadolinium enhancement (danno verosimilmente fibrotico) intramiocardico biventricolare diffuso, con pattern ring-like (risparmio della sola parete infero-laterale medio-apicale e dell’apice).

Al domicilio, tuttavia, le condizioni cliniche del paziente peggioravano (incremento ponderale di circa 10 kg ed ortopnea) rendendo necessario un accesso in pronto soccorso, anche a causa della comparsa di cardiopalmo. In pronto soccorso si evidenziava la presenza di una tachicardia ventricolare sostenuta (TVS) con polso, trattata efficacemente con DC-shock ma seguita da numerose recidive nonostante la terapia antiaritmica endovenosa con lidocaina ed amiodarone. Il paziente veniva quindi centralizzato presso la nostra unità di terapia intensiva cardiologica (UTIC).

All’arrivo in UTIC, data la marcata instabilità elettrica con TVS subentranti, gradualmente responsive alla procainamide, e la contestuale compromissione emodinamica con segni di bassa portata, veniva posizionato contropulsatore aortico e impostata terapia endovenosa con inotropi e diuretico. All’ecocardiogramma (Fig.3), così come alla revisione della risonanza magnetica cardiaca eseguita in precedenza, si poneva l’accento, oltre che sulla severa dilatazione e disfunzione biventricolare associata a insufficienze mitralica e tricuspidale funzionali severe, sulla presenza di un focale assottigliamento (3 mm) con discinesia del setto interventricolare medio-basale, caratteristica non frequente nella cardiomiopatia aritmogena bensì tipica della sarcoidosi cardiaca.


Fig.3 Ecocardiogramma: immagine in parasternale asse lungo con focus sull’estremo assottigliamento (3 mm) focale del setto interventricolare medio.

Anche la rapida progressione di malattia e l’assenza di familiarità sembravano rendere più probabile tale eziologia. In considerazione del sospetto diagnostico, nonché dell’instabilità elettrica ed emodinamica, veniva quindi eseguita una biopsia endomiocardica (BEM), la quale evidenziava la presenza di aree di infiammazione attiva con granulomi non necrotizzanti alternati a fibrosi subendocardica ed interstiziale: quadro compatibile con sarcoidosi cardiaca. La PET con 18-fluoro-2-desossiglucosio rilevava un’ipercaptazione cardiaca diffusa, mentre la TC total body, la RM cerebrale, l’esame del fundus oculi e una valutazione dermatologica escludevano la presenza di coinvolgimento extra-cardiaco. I livelli sierici dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE) risultavano nella norma.

In considerazione della diagnosi di sarcoidosi cardiaca isolata veniva intrapresa terapia corticosteroidea endovenosa ad alto dosaggio con iniziale apparente beneficio in termini di burden aritmico. Tuttavia, in seguito ad una ulteriore recidiva di TVS nonostante la terapia immunosoppressiva e la terapia medica dello scompenso cardiaco acuto, gradualmente introdotta e titolata, si associava terapia con amiodarone, con beneficio. Ad un mese dall’inizio della terapia corticosteroidea veniva ripetuta una RM cardiaca, la quale tuttavia non mostrava alcun miglioramento del coinvolgimento biventricolare. Si procedeva pertanto a potenziamento della terapia immunosoppressiva con aggiunta di metotrexato, in associazione a corticosteroide a dosaggio di mantenimento per os, con successiva dimostrazione istologica di parziale risoluzione dell’infiammazione granulomatosa ad una BEM di controllo. Nel corso del ricovero si procedeva inoltre ad impianto di ICD transvenoso in prevenzione secondaria. Veniva inoltre eseguito, in condizioni di ottimale compenso cardiocircolatorio, un cateterismo cardiaco destro che mostrava un basso indice cardiaco a riposo a fronte di resistenze polmonari nei limiti di norma, per cui, alla luce del quadro complessivo, il paziente veniva inserito in lista d’attesa per trapianto di cuore, e infine dimesso.

Sfortunatamente, nonostante la terapia medica, tre mesi dopo la dimissione seguiva un nuovo ricovero per recidiva di TVS, efficacemente trattata dall’ICD. Il paziente andava incontro a trapianto di cuore circa 3 mesi dopo, in assenza di complicanze.

DISCUSSIONE

La sarcoidosi è una patologia granulomatosa multisistemica ad eziologia non nota, verosimilmente immuno-mediata.1 E’ presente interessamento polmonare nel 95% dei casi, seguito da quello cutaneo (16%), linfonodale ed epatosplenico, mentre quello cardiaco è molto più raro (2-3%) anche se potenzialmente sottostimato (fino a 25% in termini di riscontro autoptico); la fibrosi polmonare può generare ipertensione polmonare di gruppo 3.2 Non esiste un test diagnostico specifico: piuttosto la diagnosi richiede un quadro clinico-radiologico compatibile, l’esclusione di diagnosi alternative e la conferma istologica di granulomi non-caseosi.3 A tal proposito l’ACE, prodotto dai granulomi, è elevato solo nel 75% dei casi, con peraltro una bassa specificità.4 La maggior parte dei pazienti raggiunge la remissione completa della malattia entro 10 anni senza richiedere alcuna terapia; un terzo dei pazienti invece manifesta compromissione organica strutturale e/o funzionale, con una mortalità complessiva del 5% dovuta a cause respiratorie, neurologiche o cardiache (disfunzione ventricolare, blocchi atrio-ventricolari e tachiaritmie ventricolari sino alla morte improvvisa), per cui in tali pazienti è indicata terapia corticosteroidea da rivalutare nel corso dei mesi/anni successivi.1 Il metotrexato è l’unico farmaco di seconda linea studiato, utile come strategia steroid-sparing. I pazienti con sarcoidosi cardiaca che necessitano di trapianto di cuore hanno una sopravvivenza a breve e medio termine maggiore rispetto a quelli che ne necessitano per altre cause.6

Nell’ambito della diagnosi differenziale della cardiopatia a fenotipo dilatativo, la sarcoidosi è una diagnosi non comune, né semplice. L’ECG, il severo interessamento biventricolare e l’espressione aritmica possono, come nel nostro caso, inizialmente orientare verso la ormai più comunemente attenzionata cardiomiopatia aritmogena, nonché verso altre eziologie, specialmente ad impronta genetica. Tuttavia, l’assenza di familiarità e la rapida progressione della malattia hanno smorzato tale ipotesi, e insieme al marcato interessamento del setto interventricolare, spesso estremamente assottigliato, hanno modificato l’orientamento diagnostico, seppur in assenza di interessamento polmonare; l’indagine di terzo livello (BEM) si è pertanto resa necessaria per via della potenziale reversibilità della patologia sarcoidotica.1

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UN RARO CASO DI ESTRAZIONE DI ELETTROCATETERI

Angelica Cersosimo MD1, Gianmarco Arabia MD1, Manuel Cerini MD1, Francesca Salghetti MD1, Luca Bontempi MD2, Antonio Curnis MD1

1. Dipartimento di Cardiologia e laboratorio di Elettrostimolazione, Spedali Civili Hospital, Brescia, Italy

2. Bolognini Hospital

ABSTRACT

Pochi dati esistono in letteratura di impianto di Pacemaker Leadless in pazienti portatori di protesi biologica tricuspidalica. La protesi biologica tricuspidalica è stata da sempre considerata una controindicazione relativa al pacing ventricolare destro per possibile degenerazione della protesi stessa. Pertanto, è stato sempre preferito un pacing epicardico per evitare i danni sulla protesi biologica.
Descriviamo, quindi, il caso di una donna di 69 anni portatrice di protesi meccanica mitralica e biologica tricuspidalica a seguito di degenerazione delle valvole native per pregressa malattia reumatica (2007). Il post intervento cardiochirurgico è stato complicato dalla comparsa di blocco atrioventricolare completo con successivo impianto di pacemaker bicamerale con un catetere a fissazione passiva in atrio destro ed uno a fissazione passiva in seno coronarico per via della presenza della protesi tricuspidalica biologica (2007). Nel 2015 il catetere atriale è stato abbandonato in tasca a seguito di revisione per decubito della stessa e per la concomitante comparsa negli anni di fibrillazione atriale permanente. Nel Marzo 2022 è stata ricoverata presso il reparto di Cardiologia degli Spedali Civili di Brescia per l’estrazione completa del device a seguito del secondo decubito di tasca.

Dopo 20 giorni di terapia antibiotica è stato reimpiantato un PM leadless (MICRA AV, Medtronic) per evitare di attraversare la valvola tricuspide con un elettrocatetere aumentando il rischio di degenerazione della protesi.

A 6 mesi di follow-up regolare funzionamento del device e non ulteriori episodi infettivi.

CASO CLINICO

Il presente caso clinico tratta di una donna di 62 anni portatrice di protesi tricuspidalica biologica e mitralica meccanica a seguito della pregressa malattia reumatica (2007), complicata dal blocco atrioventricolare completo post -chirurgico con conseguente impianto di pacemaker (2007). Un catetere a fissazione passiva è stato impiantato nell’atrio destro mentre il secondo nel seno coronarico (CS) anziché nel ventricolo destro a seguito alla presenza della protesi biologica tricuspidalica. Nell’ottobre 2015 la paziente ha manifestato decubito di tasca per la prima volta, quindi è stata sottoposta a revisione della stessa con successivo abbandono dell’elettrocatetere atriale in sede di tasca del dispositivo a causa della comparsa di fibrillazione atriale permanente. A Febbraio 2022 è stata sottoposta a sostituzione elettiva del generatore di Pacemaker (PM) presso un altro ospedale a causa dell’esaurimento iniziale della batteria. Nel mese successivo alla sostituzione ha descritto la comparsa di dolore in sede di tasca del dispositivo con conseguente decubito. Per tale motivo, è stata posta indicazione ad estrazione dell’intero Sistema presso il nostro centro (Spedali Civili di Brescia).

All’esame fisico aveva la paziente si presentava orientata, apiretica ed eupnoica, con una pressione sanguigna di 150/80 mmHg, frequenza cardiaca 70 bpm indotta da PM. Gli esami del sangue mostravano elevate conta leucocitaria (WBC) e livelli di proteina reattiva C (CRP) (14.250 x 10 ^3/mL e 35 mg/mL, rispettivamente).

Le emocolture pre-estrazione sono risultate negative, mentre la coltura del tampone di tasca ha rivelato la presenza di Staphylococcus Aureus. L’Ecocardiografia transesofagea (EcoTEE) ha rivelato normale funzione biventricolare (LVEF 55%) e normale funzione di ambedue le protesi valvolari. Non sono state trovate vegetazioni né sugli apparati valvolari né lungo il decorso degli elettrocateri.
Durante il ricovero presso il reparto di cardiologia degli Spedali Civili di Brescia è stata sottoposta a consulenza infettivologica che ha posto indicazione ad inizio di terapia antibiotica pre-estrazione con Daptomicina 500 mg/die e Ceftriaxone 2 g/die per diagnosi di infezione di tasca, della durata complessiva di 5 settimane.

In data 15 Marzo 2022, dopo una settimana di antibiotico terapia mirata e normalizzazione degli indici di flogosi, è stata sottoposta ad angiografia pre-estrazione che ha evidenziato fibrosi dell’asse anonimo-cavale succlavio sinistro. Contestualmente, è stata sottoposta ad estrazione degli elettrocateteri.

Dopo aver sbrigliato gli elettrocateteri dalle aderenze e rimosso il generatore, previo posizionamento di mandrino per estrazione LLD2 (Spectranetics Philips Lead Locking Device n.2), combinato all’utilizzo di estrattore meccanico (Cook 7-8.5 Fr) è stato rimosso completamente l’elettrocatetere atriale a fissazione passiva del 2007. Successivamente, mediante posizionamento di mandrino per estrazione LLDE (Spectranetics Philips Lead Locking Device E), combinato all’utilizzo di estrattore meccanico (Cook 7-8.5 Fr) e delivery specifico, è stato rimosso completamente l’elettrocatetere a livello del seno coronarico. Durante la procedura e la degenza, è stato posizionato e lasciato in situ un pacemaker temporaneo (paziente PM-dipendente).

A seguito della negatività delle emocolture post-estrazione, delle punte degli elettrocatetere e di un adeguato periodo di terapia antibiotica mirata durato 4 settimane post-estrazione, è stata sottoposta a reimpianto del  device.

In considerazione della presenza della protesi biologica tricuspidalica e dell’elevato rischio infettivo della paziente, è stato deciso di impiantare un PM Leadless (MICRA AV, Medtronic) (Figure 1 and 2).



Figure 1 and 2: prima e dopo l’estrazione degli elettrocateteri.




Figura 3. Impianto di Micra AV.

In data 7 Aprile 2022 è stata sottoposta ad impianto di PM Micra AV in apice ventricolare destro attraverso l’apposito introduttore 23-Fr che ha attraversato la protesi biologica tricuspidalica.  (Figure 3). La procedura è stata ben tollerata e priva di complicanze. L’Ecocardiografia transtoracica post-impianto di Micra AV ha evidenziato una normale funzione della valvola biologica tricuspidalica, senza segni di degenerazione.

La paziente è stata dimessa in buon compenso clinic ed emodinamico 48h post-procedura.
A 6 mesi di follow-up  evidenza di regolare funzionamento del device e non ulteriori episodi infettivi riportati.

DISCUSSIONE

Abbiamo descritto il caso di impianto di PM leadless attraverso la valvola biologica tricuspidalica conseguente alla pregressa estrazione di pacemaker bicamerale con un catetere a fissazione passiva in atrio destro ed uno a fissazione passiva in seno coronarico per via della presenza della protesi tricuspidalica biologica. Inoltre, la concomitante presenza di protesi meccanica mitralica ha aumentato il rischio della procedura sia di estrazione che di reimpianto per il rischio di trombosi aumentato e la conseguente necessità di una terapia anticoagulante continuativa. Di fatto, la paziente è stata sottoposta, durante la degenza, ad infusione continua di eparina non frazionata (UFH) con monitoraggio periodico dell’aPTT. L’UFH è stata sospesa 4h prima di ogni procedura eseguita (estrazione e reimpianto) e successiva ripresa nelle successive 4h previa infusione di bolo.

Prima della dimissione è stata sottoposta ad “imbrication” con Warfarin.
L’alternativa al PM leadless era il pacing epicardico in considerazione dell’occlusione dell’asse anonimo-succlavio-cavale all’angiografia.

In letteratura non sono stati descritti casi simili.

La protesi biologica tricuspidalica è stata da sempre considerata una controindicazione relativa al pacing ventricolare destro per possibile degenerazione della protesi stessa (1-3).

Pertanto, è stato sempre preferito un pacing epicardico per evitare i danni sulla protesi biologica.

Esistono dati scarsi sull’impianto di PM leadless attraverso una protesi biologica tricuspidalica.

Uno studio retrospettivo multicentrico (4) comprendente 19 pazienti con valvola tricuspide bioprotesica e 38 pazienti nel gruppo non sottoposto ad impianto di PM leadless non ha dimostrato alcuna differenza significativa nell’incidenza di morte, upgrading ad un dispositivo di risincronizzazione cardiaca e sviluppo di grave rigurgito tricuspidalico.

CONCLUSIONI

L’impianto di PM leadless rappresenta una nuova tecnologia eliminando i rischi connessi alla presenza dell’elettrocatetere attraverso la valvola bioprotesica. Inoltre il PM leadless riduce il rischio infettivo e l’insorgenza di endocardite valvolare (5).

Inoltre, L’impianto simultaneo di pacemaker leadless e l’estrazione di CIED sono sicuri e fattibili nel contesto di un’infezione attiva come indicato dalla letteratura. Questa strategia può essere particolarmente utile nei pazienti dipendenti da pacemaker (6).
Il nostro caso supporta la sicurezza di questo tipo di procedura se eseguito in centri esperti, consentendo un pacing efficace senza disfunzione valvolare o ulteriore rischio infettivo.

Sono necessari ulteriori studi per valutare la sicurezza a lungo termine della stimolazione Leadless PM e della valvola tricuspide bioprotesica.

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TAVI in paziente affetto da sindrome di Niemann – Pick e situs inversus totalis

Daniele De Feo1, Anna D’Anzi1, Vincenzo Pestrichella2, Pietro Scicchitano3, Marco Matteo Ciccone1, Sabino Iliceto2, Carlo Lafranceschina2, Vito Caragnano2

1 Division of University Cardiology, Cardiothoracic Department, Policlinico University Hospital, 70124 Bari, Italy;

2 Interventional Cardiology Service, “Mater Dei” Hospital, 70125 Bari, Italy;

3 Division of Cardiology, “F. Perinei” Hospital, 70022 Altamura, Italy;

ABSTRACT

Il deficit di sfingomielinasi acida, noto anche come malattia di Niemann-Pick (NP), è una rara patologia autosomica recessiva causata dalla carenza dell’enzima lisosomiale sfingomielinasi acida con conseguente accumulo di sfingomielina nelle cellule reticolo-endoteliali e progressiva disfunzione multiorgano.

In letteratura sono descritti solo pochi casi di valvulopatie associate a tale malattia e, in questo scenario clinico, esse vengono trattate esclusivamente mediante correzione chirurgica.

Riportiamo il primo caso di un paziente con malattia di NP tipo B e situs inversus totalis affetto da stenosi aortica severa sintomatica sottoposta a trattamento mediante impianto transcatetere di protesi valvolare aortica (TAVI).

CASO CLINICO

Descriviamo il caso di un paziente di 65 anni affetto da malattia di NP tipo B (diagnosticata all’età di 20 anni), situs inversus totalis, stenosi valvolare aortica severa sintomatica e numerose comorbidità quali BPCO enfisematosa, bronchiectasie, tiroidite di Hashimoto, osteoporosi femorale severa (precedentemente corretta con artroprotesi di ginocchio), osteopenia lombare con conseguente limitazione funzionale e sindrome ansioso-depressiva.

Figura 1: Valutazione ecocardiografica: a) Gradiente medio e massimo a livello della radice aortica; b) Identificazione in B-mode della radice e della valvola aortica tramite finestra apicale.

La malattia di NP è una rara patologia genetica autosomica recessiva causata della mutazione bi-allelica del gene SMPD1 e conseguente deficit dell’enzima lisosomiale sfingomielinasi acida che catalizza l’idrolisi della sfingomielina in ceramide e fosfocolina permettendone lo smaltimento. Il tipo A possiede < 5% della normale attività sfingomielinasica, con conseguente epatosplenomegalia, difficoltà di accrescimento, neurodegenerazione rapidamente progressiva e decesso entro 2 o 3 anni di età. I pazienti con il tipo B (attività enzimatica entro il 5-10% del normale) possiedono invece un fenotipo più variabile, con frequenti epatosplenomegalia, linfoadenopatia, pancitopenia e lieve interessamento neurologico.1, 2 Per la diagnosi di malattia il paziente è stato sottoposto in giovane età a biopsia di midollo osseo che ha evidenziato ipercellularità e abbondanti cellule schiumose istiocitiche come da malattia da accumulo, test genetici con riscontro della mutazione omozigote c.1799 G >A dell’esone 6 del gene SMPD1 (che determina la sostituzione dell’istidina con l’arginina) e test enzimatici che hanno dimostrato la ridotta attività dell’enzima sfingomielinasi. Venivano altresì escluse altre patologie da accumulo (malattia di Fabry, glicogenosi tipo 2 e mucopolisaccaridosi tipo1).

È opportuno sottolineare che la malattia di NP si associa frequentemente a malattie cardiovascolari, sia in età infantile che in età adulta, rendendo necessario uno stretto follow-up cardiologico. Una valutazione sistematica della morbilità e della mortalità in 103 pazienti con NP tipo B ha mostrato che il 9% dei pazienti presenta infatti malattia coronarica o valvolare.3 Sebbene la causa delle valvulopatie frequentemente associate a NP non sia stata ancora identificata con certezza, la malattia coronarica è invece presumibilmente correlata al profilo lipidico pro aterogeno (dislipidemia mista) secondario al deficit enzimatico.1, 3, 4 La disfunzione ventricolare, spesso letale in questi pazienti, può essere dovuta al progressivo deterioramento della funzionalità polmonare o secondaria a sindrome coronarica.5

Figura 2: Scansioni di tomografia computerizzata (TC) del torace che evidenziano il situs inversus. Nello specifico, le scansioni TC, evidenziavano l’inversione delle sedi del cuore e dei grossi vasi.

A seguito dell’insorgenza di dispnea per sforzi lievi moderati e vertigini nel corso dei mesi precedenti, il paziente ha eseguito valutazione cardiologica con riscontro ecocardiografico di riduzione della frazione di eiezione (FE) (45%) rispetto ai precedenti controlli (FE 56%, 12 mesi prima), dissinergia settale di nuovo riscontro e peggioramento della stenosi valvolare aortica già nota con un gradiente medio di 56 mmHg (precedentemente 36 mmHg) (figura 1) ed area valvolare di 0.8 cm2, associato ad insufficienza aortica di grado lieve ed ectasia di radice aortica (40 mm) e aorta ascendente (42 mm).

La TC total-body e l’angio TC (figura 2), eseguite in previsione della correzione valvolare, confermavano il situs inversus totalis ed evidenziavano accessi vascolari femorali idonei alla procedura transcatetere.

La coronarografia documentava origine inversa degli osti coronarici (tronco comune ad emergenza dal seno coronarico destro e coronaria destra, dominante, ad origine dal seno sinistro), con lieve ateromasia in assenza di stenosi angiograficamente significative.

Dopo valutazione collegiale in Heart Team, tenendo conto della complessa situazione sistemica e dell’elevato rischio chirurgico del paziente (Euroscore II > 6%), si optava per una correzione valvolare mediante TAVI, sebbene in letteratura non fosse descritta alcuna esperienza precedente di correzione percutanea della valvulopatia aortica in pazienti con malattia di NP.

Figura 3: Impianto percutaneo della valvola aortica protesica: a) rilascio iniziale della bioprotesi; b) risultato finale dopo il completo rilascio della bioprotesi.

La procedura è stata condotta previo posizionamento di pacemaker temporaneo attraverso vena femorale sinistra (rimosso al termine della procedura), pre-dilatazione della valvola mediante pallone Edwards 20×40 mm ed impianto di protesi biologica transcatetere Portico 29 mm. Per evidenza di leak periprotesico di grado moderato si è proceduto a post-dilatazione della valvola con pallone Edwards 23×40 mm con riduzione del leak al successivo controllo angiografico (Figura 3).

L’ecocardiogramma post-impianto confermava il corretto posizionamento della bioprotesi e l’assenza di gradiente trans-protesico (gradiente medio: 5 mmHg), con leak peri-protesico di grado lieve-moderato. Al controllo ecocardiografico di follow-up a 6 mesi non veniva evidenziato un aumento del gradiente medio (6 mmHg) e si riscontrava ulteriore riduzione del leak peri-protesico.

DISCUSSIONE

Sebbene in letteratura vi siano pochi dati circa la correzione chirurgica della stenosi aortica in pazienti con malattia di NP, spesso con outcome sfavorevoli,6 non esistono invece ancora evidenze sull’utilizzo della TAVI in tale setting clinico. Il presente case report descrive l’unico caso finora noto in letteratura di un paziente con malattia di NP, situs inversus totalis e stenosi valvolare aortica severa sottoposto a TAVI. Sebbene siano necessari ulteriori conferme, soprattutto sugli outcome a lungo termine, reputiamo che la TAVI possa essere una valida opzione per il trattamento della stenosi aortica in relazione alle complesse caratteristiche cliniche di questi pazienti. Alla luce di ciò, la realizzazione di un registro dei pazienti affetti da malattia di NP e concomitanti patologie cardiovascolari potrebbe essere di indubbio vantaggio nella gestione clinica e nel follow-up di tale condizione.

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Miocardite acuta in giovane paziente con malattia infiammatoria cronica intestinale

Simone Fodra, Enrico G. Spinoni, Anna Degiovanni, Ailia Giubertoni, Sara Bacchini, Luisa Airoldi, Lidia Rossi, Giuseppe Patti

Università del Piemonte Orientale, Novara, Italia.

Abstract

La miocardite è una sfida diagnostica vista l’eterogeneicità delle sue presentazioni e meccanismi eziopatogenetici.

Riportiamo il caso di un uomo di 27 anni con una diagnosi di miocardite insorta all’incirca 1 mese dopo l’inizio della terapia con mesalazina per il trattamento di una malattia infiammatoria intestinale inizialmente inquadrata come RCU. La diagnosi di miocardite indotta dal farmaco è stata posta  dopo la regressione dei sintomi e il miglioramento delle condizioni del paziente conseguente la sospensione della terapia con a mesalazina, l’esclusione di altre possibilità diagnostiche e tipicamente l’assenza di reperti caratteristici alla risonanza magnetica cardiaca.

Case report

Figura 1. Ecocardiogramma transtoracico al ricovero.

Paziente maschio di 27 anni, inviato alla nostra attenzione dal curante per dolore toracico intensificato con il respiro associato a febbre elevata persistente (T max 38,5 °C) da circa 10 giorni, responsiva a FANS (ibuprofene), a tosse stizzosa, e a scariche diarroiche ematiche. In anamnesi riferiva un pregresso intervento per asportazione di linfoangioma sottomandibolare destro 20 anni prima, infezione da SARS-CoV2 un anno prima e recente diagnosi di possibile RCU,  per la quale era stato avviato trattamento con Mesalazina 800 mg 1 cp x3/die ( in atto da  3 settimane).

Agli esami ematici all’ingresso si documentava rialzo della troponina (TnI-hs 758 ng/l, cut off normalità 56 ng/l), WBC 12870/uL. All’ECG mostrava ritmo sinusale a 90 bpm, stacco alto del tratto ST in sede laterale. Si eseguiva quindi ecocardiogramma transtoracico (TT) che in acuto mostrava FE ventricolare sinistra ridotta (38%) e riduzione del GLS, ipocinesia diffusa, più evidente a livello della parete laterale ed inferiore, non valvulopatie di rilievo emodinamico (Figura 1). All’RX torace non addensamenti parenchimali in atto.

Avviava terapia cardioattiva con ACE-i e ß-bloccante e sospendeva Mesalazina in 4° giornata di ricovero per sospetto effetto cardiotossico del farmaco, avviando metronidazolo.

Figura 2. Tracciati ECG di fibrillazione atriale e flutter atriale durante il ricovero.

Persistendo dolore addominale il paziente veniva sottoposto a TC addome con mdc con riscontro di colite acuta e focolai di sospetta nefrite a carico del rene destro per cui avviava terapia antibiotica Eseguite urinocolture ed emocolture risultate negative; coprocolture, panel parassitologico, ricerca Clostridium Difficile e Quantiferon risultati negativi. Allo screening siero-virologico per miopericardite veniva riscontrata positività HHV6 e Parvovirus B19 a basso titolo,  non significativi di infezione acuta o pregressa.

Durante la degenza regressione completa del dolore toracico (picco TnI di 758 ng/L riscontrato all’ingresso con normalizzazione nel corso della degenza), vomito ricorrente trattato con antiemetici e risoluzione delle irregolarità dell’alvo (non scariche ematiche durante la degenza), apiretico dalla 9° giornata (picco febbrile 38,2° in seconda giornata), calo degli indici di flogosi con normalizzazione dei WBC (picco 15440/microL in quarta giornata, neutrofili 12590/microL) e della PCR (picco 31 mg/dl in quinta giornata).

Visto il quadro clinico non indicativo per infezione in atto, veniva avviata terapia steroidea (Budesonide).

Durante la degenza si sono registrati plurimi parossismi di FA e flutter 2:1, auto-risoltasi (in un’occasione somministrato con beneficio carico di Amiodarone); non avviata terapia anticoagulante orale per CHA2DS2-VASC = 0 (Figura 2).

Figura 3. Ecocardiogramma transtoracico di controllo intra-ricovero con miglioramento della funzione ventricolare sinistra e dei valori di global longitudinal strain.

L’ecocardiogramma ha mostrato un progressivo miglioramento progressivo della funzionalità cardiaca: con stima di FE ventricolare sinistro pari a  54%, normalizzazione dei valori di GLS non deficit di cinetica segmentaria  non versamento pericardico (Figura 3).

Eseguito inoltre screening reumatologico con riscontro di positività per ANCA, reperto aspecifico nel contesto di quadro infiammatorio acuto in atto.

Veniva inoltre eseguita risonanza magnetica (RM) cardiaca con MDC che documentava FE ai limiti inferiori di norma (FE 54%) in assenza di edema e/o fibrosi miocardica (Figura 4). Inoltre come esame di approfondimento, veniva eseguita PET Total-body che confermava assenza di patologia ad elevata componente metabolica a livello totale corporeo ed in particolare in corrispondenza delle pareti dei grandi vasi.

Discussione

Figura 4. Risonanza magnetica cardiaca che documentava assenza di segni patologici caratteristici.

La Mesalazina (5-ASA) è comunemente prescritta come terapia medica di prima linea nel trattamento della colite ulcerosa (RCU). Gli effetti collaterali più frequentemente riportati sono nausea, vomito e dolore addominale. Effetti collaterali più rari includono pancreatite, discrasie ematiche e problemi cardiovascolari. La miocardite è una complicanza rara della terapia con 5-ASA con conseguenze però potenzialmente letali. Il meccanismo con cui 5-ASA causa la miocardite non è chiaro, ma è ipotizzato essere cellulo-mediato, attraverso una reazione di ipersensibilità.

La miocardite da Mesalazina si verifica entro 2-4 settimane dall’ inizio del trattamento. Gli studi pubblicati su questo argomento hanno dimostrato come le complicanze cardiache da 5-ASA rispondono bene alla semplice interruzione di questo farmaco, supportando ulteriormente l’ipotesi del maccanismo sottostante da ipersensibilità.

Tuttavia, stabilire una diagnosi di miocardite causata da 5-ASA è particolarmente difficile perché non ci sono risultati specifici derivati da dati di laboratorio o imaging cardiaco che siano  patognomonici di questa condizione. Le caratteristiche chiave da riconoscere sono l’esordio del dolore toracico, dispnea o febbre subito dopo l’inizio del trattamento, di solito entro 28 giorni. Tecniche di imaging non invasive come l’ecocardiografia e la RM cardiaca hanno una buona capacità diagnostica e possono offrire un’alternativa alla biopsia miocardica, che pur rappresentando il gold standard diagnostico, viene eseguito raramente.

L’interruzione del trattamento con 5-ASA dovrebbe essere sempre applicata pur essendo necessario escludere altre cause di miocardite, tra cui forme virali, secondarie a vasculite o a manifestazioni extraintestinali di IBD.

Conclusioni

In pazienti che si presentino con dolore toracico, dispnea e febbre entro 28 giorni dall’avvio di Mesalazina, la terapia deve essere interrotto immediatamente, in quanto il farmaco rappresenta una rara, seppur possibile causa di miocardite acuta, con conseguenze potenzialmente drammatiche.

Le attuali linee guida per la diagnosi e trattamento dello scompenso cardiaco sono adatte alla complessità clinica della patologia e del paziente?

Paolo Severino, Andrea D’Amato, Silvia Prosperi, Alessandra Dei Cas, Anna Vittoria Mattioli, Pasquale Pagliaro, Massimo Mancone, Francesco Fedele.

Università di Roma La Sapienza

Abstract

L’insufficienza cardiaca (IC) è una sindrome clinica caratterizzata da segni e sintomi associati ad anomalie strutturali e/o funzionali cardiache che determinano una portata cardiaca inadeguata e/o  aumento delle pressioni di riempimento intraventricolari. Nell’Agosto 2021 la società europea di cardiologia ha pubblicato le ultime linee guida sulla diagnosi e trattamento dell’IC, secondo le quali la frazione d’eiezione continua a rimanere un parametro cardine per la valutazione, stratificazione del rischio e gestione terapeutica del paziente affetto da IC, malgrado i suoi ben noti limiti. Infatti i meccanismi fisiopatologici dell’IC sono molteplici e complessi comprendendo inizialmente solo il cuore, esitando poi in un’insufficienza multiorgano. In questi termini, l’IC è assimilabile alla malattia neoplastica. Alla luce di queste considerazioni, una revisione del concetto di IC è necessaria per superarne la semplicistica visione.

Introduzione

L’ insufficienza cardiaca (IC) è una sindrome clinica caratterizzata da segni e sintomi associati ad anomalie strutturali e/o funzionali cardiache che determinano una portata cardiaca inadeguata e/o aumento delle pressioni di riempimento intraventricolari [1,2]. Nell’Agosto 2021 la società europea di cardiologia (ESC) ha pubblicato le ultime linee guida sulla diagnosi e trattamento dell’IC, continuando a considerare la frazione d’eiezione (FE) un parametro cardine per la valutazione, stratificazione del rischio e gestione terapeutica dei pazienti, malgrado i suoi ben noti limiti[3-10]. Recentemente, è stato proposto un approccio innovativo per classificare l’IC basato sui fenotipi clinici. L’uso di fenotipi clinici, lungo l’intero spettro dell’IC, per categorizzarne i pazienti rappresenta certamente un approccio pratico per portare ordine nella complessità della patologia [3]. Benché tale approccio superi la natura categoriale della classificazione dell’IC secondo la FE, potrebbe risultare troppo semplicistico per una malattia dalle molte sfaccettature come l’IC. L’approccio “fenotipico” considera l’IC come una malattia continua ed in evoluzione, dando più enfasi alle comorbidità e fattori di rischio. Tuttavia, conserva la medesima visione cardiocentrica della FE: diversi fenotipi di IC sono estrapolati da una relazione non lineare tra variabilità della FE e volume telediastolico ventricolare. Ulteriori sforzi sono necessari per ottimizzare la classificazione dell’IC. In particolare dovrebbe essere data più enfasi al coinvolgimento multiorgano progressivo che renderebbe l’IC simile alla malattia neoplastica. Molteplici aspetti clinici, come il coinvolgimento renale e polmonare, l’anemia, la disfunzione epatica e neurologica, come anche specifici biomarkers circolanti sono spesso non considerati, malgrado abbiano un grande impatto sulla morbidità e mortalità dei pazienti con IC, indipendentemente dalla FE [1,11]

I pitfalls della FE

La classificazione dell’IC basata sulla FE ha diversi limiti. In primo luogo, non considera il meccanismo fisiopatologico e l’eziologia specifica sottostante l’IC [4,5]. Inoltre, diversi sono i limiti tecnici di acquisizione di tale parametro. Infatti, la FE è derivata da un assunto geometrico che possiede una variabilità inter e intra osservatore molto elevata [4,12]. La FE è una misura dipendente dal carico volemico. E’ rilevante come la classificazione dell’IC basata sulla FE non sia strettamente correlata alla prognosi. Spesso i pazienti con FE preservata hanno una prognosi peggiore in termini di mortalità e ospedalizzazioni, di quelli a FE ridotta [4]. Nonostante l’assenza di riduzione della FE ventricolare sinistra sia criterio fondamentale per la diagnosi di IC a FE preservata, diversi studi hanno mostrato alterazioni della funzione sistolica come la riduzione dell’escursione sistolica del piano valvolare mitralico e la riduzione dello strain longitudinale [13-16]. Oltretutto, l’alterazione del valore di S’, con la tecnica del Doppler tissutale, appare intimamente collegata alla disfunzione diastolica a dimostrazione che la disfunzione sistolica è spesso presente nei pazienti con IC a FE preservata. L’IC a FE ridotta e quella a FE preservata condividono meccanismi fisiopatologici comuni: l’ipofosforilazione della titina [3,17,18]. Un altro meccanismo condiviso è rappresentato dall’ingrandimento atriale sinistro. La sua funzione e il suo volume correlano con la capacità di esercizio e hanno un valore prognostico indipendente dalla FE. [11,19]. Tali evidenze dimostrano che termini come “preservata”, “ridotta”, “sistolica” e “diastolica” possano risultare sovrapponibili e ingannevoli per la stratificazione dei pazienti con IC.

La gestione terapeutica dell’IC: le indicazioni ingannevoli.

Figura 1

Forti evidenze suggeriscono come la compliance alla terapia per l’IC sia correlata ad una prognosi migliore [20,21]. La maggior parte dei pazienti affetti da IC ha una bassa aderenza e incongrua titolazione della terapia [22,23]. Questo aspetto potrebbe avere una base fisiopatologica, poiché tali pazienti hanno una malattia complessa con coinvolgimento multiorgano, e, per tale ragione, non immediatamente adatti ad iniziare tutti i farmaci previsti. Il coinvolgimento renale, per esempio, è presente in circa il 50% della popolazione con IC, ed ha un ruolo determinante nell’aumentare la morbi-mortalità nell’IC [24]. Ciò è dovuto ad un gradiente ridotto lungo il capillare glomerulare determinato da un aumento della pressione venosa centrale e riduzione della gittata anterograda [25]. La disfunzione renale, in particolare l’insufficienza renale acuta, può rappresentare un limite per i numerosi farmaci indicati come gli ACEi/ARNi. Per quanto concerne gli anti-aldosteronici (MRA), nell’EMPHASIS-HF trial, pazienti trattati con Eplerenone hanno mostrato un peggioramento della funzione renale ed un aumento della kaliemia rispetto ai placebo [26]. Tuttavia, diversi trial clinici hanno mostrato diversi benefici nei pazienti con IC e malattia renale cronica trattati con MRA [27]. L’azione nefroprotettiva è stata ampiamente dimostrata per i farmaci SGLT2i [28-30]. Questo paradosso sottolinea un altro limite nell’attuale approccio terapeutico tetrafarmacologico, raccomandato nelle recenti linee guida ESC [1]: il trattamento è basato sulla FE, e non considera i differenti stadi di severità dell’IC e del coinvolgimento renale. La terapia proposta dalle attuali linee guida è attuabile solo in una piccola percentuale di pazienti, in quanto non è possibile sempre somministrare tutti i farmaci suggeriti immediatamente.

Una revisione estesa dell’attuale paradigma dell’IC dalla definizione alla terapia è richiesta a causa delle limitazioni esposte (Figura 1). La valutazione della FE e dei sintomi tramite la classe NYHA appare troppo semplicistica ed inaccurata per la diagnosi, per la stratificazione prognostica e la gestione terapeutica dei pazienti con IC. L’IC è paragonabile alla malattia neoplastica in quanto inizia come malattia cardiaca, diventando progressivamente multiorgano. Come per il cancro, la sopravvivenza, la morbidità e l’ospedalizzazione sono collegati non solo alla massa neoplastica primitiva ma soprattutto alla diffusione metastatica.

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