Illustrazione-principale

Short DAPT contro de-escalation della DAPT dopo angioplastica percutanea per sindrome coronarica acuta: una network meta-analysis

Autori: Claudio Laudani1 , Antonio Greco1 , Giovanni Occhipinti1 , Salvatore Ingala1 , Dario Calderone1 , Lorenzo Scalia1 , Federica Agnello1 , Marco Legnazzi1 , Maria Sara Mauro1 , Carla Rochira1 , Sergio Buccheri2 , Roxana Mehran3 , Stefan James2 , Dominick J Angiolillo4 , Davide Capodanno1

Affiliazioni:

1 Divisione di Cardiologia, Azienda Ospedaliero Universitaria Policlinico “G. Rodolico-San Marco”, Università degli Studi di Catania, Catania, Italia.

2 Department of Medical Sciences, Cardiology and Uppsala Clinical Research Center, Uppsala University, Uppsala, Sweden.

3 The Zena and Michael A. Wiener Cardiovascular Institute, Icahn School of Medicine at Mount Sinai, New York, New York, USA.

4 Division of Cardiology, University of Florida College of Medicine, Jacksonville, Florida, USA.

Commento di Marco Legnazzi, Divisione di Cardiologia, Azienda Ospedaliero Universitaria Policlinico “G. Rodolico-San Marco”; Università degli Studi di Catania – Catania

ABSTRACT

Nei pazienti con sindrome coronarica acuta sottoposti a PCI, le strategie per diminuire il rischio emorragico includono un accorciamento della DAPT (short DAPT) e il “depotenziamento” (de-escalation) della DAPT (uso di inibitore del recettore P2Y12 meno potente). Tuttavia, tali strategie non sono state mai confrontate direttamente in studi randomizzati. Abbiamo dunque realizzato una network meta-analysis di 50602 pazienti da 29 studi, che ha comparato indirettamente la short DAPT con la de-escalation, usando la DAPT standard come comune comparatore. Non abbiamo osservato una differenza significativa in termini di mortalità da tutte le cause; la de-escalation ha però ridotto il rischio di NACE, mentre la short DAPT è risultata il miglior trattamento per ridurre il rischio di sanguinamento maggiore.

COMMENTO

In pazienti con sindrome coronarica acuta (SCA) trattati mediante angioplastica percutanea, la DAPT (dual antiplatelet therapy – duplice terapia antiaggregante) è raccomandata per 12 mesi in assenza di controindicazioni come l’alto rischio di sanguinamento. Il rischio emorragico, infatti, è il principale effetto avverso della DAPT ed è associato a morbilità e mortalità significative.

Attualmente, esistono due strategie di modulazione della DAPT per ridurre il rischio emorragico: l’accorciamento della DAPT (short DAPT) e la de-escalation (il passaggio ad un inibitore del recettore P2Y12  meno potente o con dosaggio ridotto). Nelle linee guida dell’European Society of Cardiology sulle SCA senza sopraslivellamento del tratto ST, pubblicate nel 2020, per i pazienti ad alto rischio di sanguinamento (stimato tramite score quali il PRECISE-DAPT o l’ARC-HBR), la strategia di short DAPT (3 mesi di DAPT seguita da monoterapia antiaggregante) è indicata come raccomandazione di classe IIa, mentre la de-escalation della DAPT è indicata come raccomandazione di grado IIb.

In assenza di un confronto diretto tra le strategie di short DAPT e DAPT de-escalation, abbiamo realizzato una network meta-analysis con metodologia frequentista e Bayesiana che ha comparato le due strategie, in maniera indiretta, attraverso l’analisi di 29 studi randomizzati o sottoanalisi di studi randomizzati, per un totale di 50602 pazienti.

Le fonti dei dati includevano studi riportati sui database MEDLINE, Cochrane e Web of Science, dal 1° Gennaio 2009 al 30 Ottobre 2021. Sono stati consultati anche siti web delle società e associazioni di riferimento, e la lista bibliografica di ogni studio eleggibile. Il rischio di bias è stato valutato per ogni studio della selezione finale attraverso la scala Cochrane RoB 2. Il bias di pubblicazione è stato valutato con il test di regressione di Egger e la verifica visuale dei funnel plot.

La network meta-analysis ha raccolto i risultati di diversi trial randomizzati su pazienti sottoposti a PCI per SCA:

  • Trials di short DAPT vs standard DAPT
  • Trials di de-escalation vs standard DAPT

Essendo soddisfatto il presupposto della transitività (simili caratteristiche demografiche e cliniche tra gli studi di short DAPT e di de-escalation), e poiché gli studi di short DAPT e di de-escalation presentavano un comparatore comune (standard DAPT), è stato possibile confrontare indirettamente le due strategie. La short DAPT è stata definita come interruzione a 1-6 mesi di uno dei due antiaggreganti; la de-escalation invece è stata definita come 12 mesi di DAPT con shift, ad un certo punto, da prasugrel o ticagrelor a clopidogrel o a dose dimezzata di prasugrel o ticagrelor; la standard DAPT, utilizzata come termine di paragone, è stata definita come DAPT per la durata standard di 12 mesi.

In considerazione dei risultati, le due strategie sono apparse equivalenti per molti aspetti, non essendoci differenze significative in termini di mortalità da tutte le cause, mortalità cardiovascolare, eventi cardiovascolari avversi maggiori, infarto miocardico, stroke, trombosi di stent. Sono tuttavia emersi dei meriti specifici, come il minor tasso di emorragie maggiori con la short DAPT e la minor incidenza di NACE (net adverse cardiovascular events) con la de-escalation. I risultati delle analisi frequentiste sono stati confermati dalle analisi Bayesiane e dalle multiple analisi di sottogruppo e di sensibilità eseguite.

Considerando la gerarchia delle evidenze scientifiche, un confronto indiretto è sicuramente subottimale rispetto ad un confronto diretto su larga scala, ma al momento questa meta-analisi rappresenta l’unico studio basato su dati randomizzati che mette a paragone le due strategie di modulazione della DAPT. Inoltre, l’utilizzo di modalità di analisi differenti (frequentistica e Bayesiana) e la loro concordanza corroborano l’affidabilità dei risultati riportati.

Dal punto di vista pratico, questi dati possono guidare la personalizzazione della DAPT in base agli obiettivi del trattamento e al profilo di rischio del singolo paziente. In caso di fondato motivo di preoccupazione relativo al sanguinamento, la short DAPT potrebbe essere preferibile alla de-escalation, che al contrario potrebbe rappresentare la strategia di scelta se la preoccupazione riguarda soprattutto la combinazione del rischio trombotico e ischemico.

FIGURA 1: Ogni strategia è rappresentata da un nodo, di dimensioni proporzionali al numero totale di soggetti che hanno ricevuto quel trattamento. I confronti tra strategie sono rappresentati da linee tra i nodi, con spessore delle linee proporzionale al numero di studi disponibile per quella specifica comparazione. Le linee solide raffigurano confronti diretti. Le linee tratteggiate raffigurano confronti indiretti. ASA = acido acetilsalicilico; DAPT= dual antiplatelet therapy – duplice terapia antiaggregante; P2Y12i = inibitore del recettore P2Y12.

ILLUSTRAZIONE PRINCIPALE: ASA = acido acetilsalicilico; BID = bis in die; C75 = clopidogrel 75 mg; DAPT = dual antiplatelet therapy – duplice terapia antiaggregante; NACE = net adverse cardiovascular events; OD = once daily – una somministrazione al giorno; P2Y12i = inibitore del recettore P2Y12; P5 = prasugrel 5 mg; P10 = prasugrel 10 mg; SAPT = single-antiplatelet therapy – monoterapia antiaggregante; SCA = sindrome coronarica acuta; SCR = sanguinamento clinicamente rilevante; T45 = ticagrelor 45 mg; T90 = ticagrelor 90 mg.]

BIBLIOGRAFIA:

  • Laudani C, Greco A, Occhipinti G, Ingala S, Calderone D, Scalia L, Agnello F, Legnazzi M, Mauro MS, Rochira C, Buccheri S, Mehran R, James S, Angiolillo DJ, Capodanno D. Short Duration of DAPT Versus De-Escalation After Percutaneous Coronary Intervention for Acute Coronary Syndromes. JACC Cardiovasc Interv. 2022 Feb 14;15(3):268-277. doi: 10.1016/j.jcin.2021.11.028.
  • Kereiakes DJ, Yeh RW. DES and DAPT in Evolution: Will Clinical Guidelines Follow? JACC Cardiovasc Interv. 2022 Feb 14;15(3):278-281. doi: 10.1016/j.jcin.2021.12.014.

More on:

https://www.jacc.org/doi/full/10.1016/j.jcin.2021.11.028

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/35144783/

https://www.sciencedirect.com/journal/jacc-cardiovascular-interventions

Figures modified and reprinted from: JACC: Cardiovascular Interventions, Vol 15(3), Laudani C, Greco A, Occhipinti G et al. Short Duration of DAPT Versus De-Escalation After Percutaneous Coronary Intervention for Acute Coronary Syndromes, pages 268–277, Copyright 2022, with permission from Elsevier.

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Thrombotic risk in patients with COVID-19

A cura di Angelica Cersosimo

Prove emergenti dimostrano che la pandemia in corso della malattia da coronavirus 2019 (COVID-19) è strettamente legata alla coagulopatia anche se la polmonite appare come la principale manifestazione clinica. L’esatta incidenza degli eventi tromboembolici è in gran parte sconosciuta, per cui è stato condotto un numero

relativamente significativo di studi al fine di esplorare il rischio trombotico nei pazienti COVID-19.

Il principale punto di ingresso nelle cellule per SARS-CoV-2 è l’enzima di conversione dell’angiotensina 2 (ACE-2), che è attaccato alla superficie esterna delle cellule nei polmoni, nelle arterie, nel cuore, nei reni e nell’intestino. Tuttavia, i picchi proteina spike S1 interagiscono anche con la proteina RBC Band3, in modo simile all’interazione dei picchi S1 e dei recettori ACE-2, determinando pertanto ipossia. 

Inoltre, la tempesta di citochine, mediata da interleuchine pro-infiammatorie, fattore di necrosi tumorale α e reagenti di fase acuta elevati, è la principale responsabile dell’ipercoagulopatia associata a COVID-19. Nei pazienti con sindrome respiratoria acuta grave coronavirus 2 (SARS-CoV-2) un ruolo chiave è svolto, in aggiunta, dalla risposta infiammatoria, segnalando la progressione del COVID-19, come dimostrato in uno studio retrospettivo cinese in cui i livelli plasmatici di IL-6 (il principale fattore scatenante della

cosiddetta “tempesta di citochine”) e la proteina C-reattiva (CRP) sono fattori predittivi indipendenti della gravità della malattia nei pazienti con COVID-19.

L’incidenza di TEV, infatti,  tra i pazienti ospedalizzati con COVID-19, è significativa, anche in quelli sottoposti a terapia anticoagulante.

L’analisi dei diversi fattori di rischio nei pazienti COVID-19 ha rivelato, pertanto, che una più alta conta dei globuli bianchi, un più alto livello di D-dimero e un più alto rapporto neutrofili/linfociti sono associati indipendentemente al TEV, sottolineando la stretta relazione tra coagulazione e vie infiammatorie.

Pertanto, possiamo riassumere l’effetto protrombotico dell’infezione da SARS-CoV-2 in:

facilitazione della deposizione estesa dei componenti del complemento terminale, formazione eccessiva di NET per rilascio di neutrofili ed interazione diretta con il TLR-7 delle piastrine con conseguente risposta trombo-infiammatoria, aumento della produzione di immunoglobuline e reclutamento dei linfociti T nei siti di danno vascolare.

Anche le comorbidità, come diabete, ipertensione e danno renale acuto, svolgono un ruolo nel promuovere il danno endoteliale e possono, di conseguenza, essere legate a complicanze legate al COVID-19.

Le comorbidità, associate alla infezione da SARS-COV-2 comportano una maggiore incidenza di  TEV , di tromboembolismo arterioso, di danno miocardico acuto, miocardite e CID.

E’ importante, pertanto, iniziare tempestivamente una terapia anticoagulante come profilassi valutando, durante la somministrazione, la modifica dei valori di D-dimero.

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Valore prognostico dell’ECG d’ingresso nei pazienti ospedalizzati per COVID-19 a basso rischio.

Autori: Martino PEPE1, Gianluigi NAPOLI1, Gaetano BRINDICCI2, Eugenio CARULLI1, Palma L. NESTOLA1, Carmen R. SANTORO2, Giuseppe BIONDI-ZOCCAI3,4, Arturo GIORDANO5, Fabrizio D’ASCENZO6, Plinio CIRILLO7, Annalisa SARACINO2,8, Stefano FAVALE1.

1 UO Cardiologia Universitaria, Dipartimento di Emergenza e Trapianti d’Organo (DETO), Università di Bari “Aldo Moro”, Piazza G. Cesare 11, Bari (BA), 70124, Italia.

2 UO Malattie Infettive, Policlinico di Bari, Piazza G. Cesare 11, Bari (BA), 70124, Italia.

3 Dipartimento di Scienze medico-chirurgiche e Biotecnologia, Università Sapienza di Roma, Corso della Repubblica 79, Latina (LT), 04100, Italia.

4 Cardiocentro Mediterranea, Via Orazio 2, Napoli (NA), 80122, Italia.

5 UO Cardiologia Invasiva, Ospedale “Pineta Grande”, Via Domitiana km 30, Castel Volturno (CE), 81030, Italia.

6 Divisione di Cardiologia, Dipartimento di Scienze Mediche, Università di Torino, Ospedale “Città della salute e della scienza”, Torino (TO), 10126, Italia.

7 Divisione di Cardiologia, Università di Napoli “Federico II”, Napoli (NA), 80131, Italia.

8 Dipartimento di Scienze Biomediche e Oncologia Umana, Università di Bari “Aldo Moro”, Piazza G. Cesare 11, Bari (BA), 70124, Italia.

a cura di Gianluigi Napoli

ARTICOLO

Il coinvolgimento cardiaco contribuisce significativamente alla mortalità dei pazienti affetti COronaVIrus-Disease-19 (COVID-19)1-5 mediante molteplici meccanismi: danno miocardico diretto, eventi tromboembolici, tossicità delle terapie, ipossia tissutale legata a mismatch tra domanda e offerta di ossigeno e la tempesta citochinica pro infiammatoria in grado di determinare miocarditi fulminanti6-9 10 11.

L’Elettrocardiogramma (ECG) costituisce un valido strumento di screening per identificare precocemente i pazienti ospedalizzati per COVID-19 caratterizzati da un decorso intraospedaliero sfavorevole sebbene inizialmente classificati a basso rischio. Gli studi finora condotti hanno valutato il valore predittivo dell’ECG nei pazienti ospedalizzati per COVID-19 indipendentemente dalla presentazione clinica d’ingresso. Questo approccio “all-inclusive” tuttavia pone il dilemma che i parametri elettrocardiografici basali costituiscano un semplice marker di malattia avanzata piuttosto che dei predittori di decorso sfavorevole.

Il nostro studio osservazionale monocentrico ha incluso 348 pazienti consecutivi ospedalizzati per COVID-19 presso l’AOU Policlinico di Bari tra marzo 2020 e marzo 2021 con un basso profilo di rischio clinico (non necessitanti di iniziale ricovero in terapia intensiva, ventilazione meccanica invasiva o supporto cardiocircolatorio meccanico o farmacologico). Tutti i pazienti sono stati sottoposti ad ECG all’ingresso, refertato da 2 cardiologi indipendenti.

Gli outcome primari erano: mortalità intraospedaliera e l’outcome composito di morte e intubazione orotracheale (IOT). Durante il ricovero 29 pazienti (7.5%) sono deceduti e 44 pazienti (11.5%) hanno raggiunto l’outcome composito di morte e/o intubazione orotracheale (IOT).

I pazienti con outcome peggiore erano caratterizzati da una maggiore prevalenza di diabete mellito di tipo 2, ipertensione arteriosa, storia di malattia cardiovascolare e uso di terapia antiaggregante o betabloccante.

Alla regressione logistica univariata, i predittori elettrocardiografici di mortalità intraospedaliera sono risultati: fibrillazione atriale (FA), scarsa crescita dell’onda R in V1-V6, tachicardia, bassi voltaggi del QRS nelle derivazioni precordiali, sottoslivellamento del tratto ST in qualsiasi derivazione, e/o in sede laterale e/o precordiale, onde T negative in qualsiasi derivazione e/o in sede laterale, intervallo QT corretto (QTc), blocco di branca destra (BBD) ed emiblocco anteriore sinistro (EAS). L’analisi multivariata ha confermato che la FA, la tachicardia, la scarsa crescita dell’onda R in V1-V6 e il BBD sono significativamente associati alla mortalità intraospedaliera.

Analogamente, l’analisi univariata ha evidenziato come predittori di morte e/o IOT: FA, scarsa crescita dell’onda R in V1-V6, il sottoslivellamento del tratto ST in sede laterale o precordiale, le onde T negative in qualsiasi sede o in sede laterale, la tachicardia, il QTc, il BBD e l’EAS. Alla regressione logistica multivariata la FA, la scarsa crescita dell’onda R, la tachicardia, il QTc e il BBD sono risultati predittori indipendenti di morte e/o IOT. (figura 1)

I principali risultati del presente studio sono:

  1. Nei pazienti affetti da COVID-19 a basso rischio, l’ECG costituisce un esame rapido, economico, facilmente effettuabile e ad elevata capacità di stratificazione prognostica;
  2. la tachicardia, la FA, la scarsa crescita dell’onda R in V1-V6 e il BBD all’ECG di ingresso costituiscono predditori indipendenti di mortalità; questi stessi parametri, assieme al QTc, sono inoltre fortemente associati all’outcome composito di morte e/o IOT;
  3. tra tutti i parametri citati, il BBD si è rivelato il più forte predittore sia di morte (OR 8.039, IC 1.229-52.603; p = 0.03) che di morte e/o IOT (OR 9.196, IC 1.600-52.852; p=0.013).

L’unicità dello studio riguarda il focus sui pazienti a basso rischio (come testimoniato dalla mortalità intraospedaliera del 7.5%, notevolmente inferiore rispetto ai recenti report su coorti di pazienti non selezionate).12, 13 Ciò permette di identificare la categoria di pazienti che può beneficiare maggiormente dalla modulazione dell’approccio diagnostico-terapeutico intraospedaliero, mediante uno stretto monitoraggio clinico-laboratoristico, una valutazione cardiologica precoce e un trattamento farmacologico più aggressivo, permettendo inoltre una migliore allocazione delle risorse in un contesto emergenziale.

REFERENCES

REFERENCES

1.         Driggin, E., et al., Cardiovascular Considerations for Patients, Health Care Workers, and Health Systems During the COVID-19 Pandemic. J Am Coll Cardiol, 2020. 75(18): p. 2352-2371.

2.         Ruan, Q., et al., Clinical predictors of mortality due to COVID-19 based on an analysis of data of 150 patients from Wuhan, China. Intensive Care Med, 2020. 46(5): p. 846-848.

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5.         El-Battrawy, I., et al., COVID-19 and the impact of arterial hypertension—An analysis of the international HOPE COVID-19 Registry (Italy-Spain-Germany). European Journal of Clinical Investigation, 2021. n/a(n/a): p. e13582.

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8.         Núñez-Gil, I.J., et al., Renin-angiotensin system inhibitors effect before and during hospitalization in COVID-19 outcomes: Final analysis of the international HOPE COVID-19 (Health Outcome Predictive Evaluation for COVID-19) registry. American Heart Journal, 2021. 237: p. 104-115.

9.         Santoro, F., et al., Anticoagulation Therapy in Patients With Coronavirus Disease 2019: Results From a Multicenter International Prospective Registry (Health Outcome Predictive Evaluation for Corona Virus Disease 2019 [HOPE-COVID19]). Crit Care Med, 2021. 49(6): p. e624-e633.

10.       Pellegrini, D., et al., Microthrombi as a Major Cause of Cardiac Injury in COVID-19. Circulation, 2021. 143(10): p. 1031-1042.

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12.       Mountantonakis, S.E., et al., Atrial fibrillation is an independent predictor for in-hospital mortality in patients admitted with SARS-CoV-2 infection. Heart Rhythm, 2021. 18(4): p. 501-507.

13.       Akhtar, Z., et al., Prolonged QT predicts prognosis in COVID-19. Pacing Clin Electrophysiol, 2021. 44(5): p. 875-882.

MCS, mechanical circulation support; IMV, invasive mechanical ventilation; PRWP, poor R wave progression; RBBB, right bundle branch block; AF, atrial fibrillation; QTc, QT corrected interval.

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Tailoring the Ablative Strategy for Atrial Fibrillation: A State-of-the-Art Review

Autori: Zefferino Palamà1,2, Martina Nesti3, Antonio Gianluca Robles2,4, Antonio Scarà5, Silvio Romano2, Elena Cavarretta6,7, Maria Penco2, Pietro Delise8, Mariano Rillo1, Leonardo Calò5 and Luigi Sciarra2,5

Commento a cura di: Lorenzo-Lupo Dei e Simona Minardi

1Elettrofisiologia, Casa di Cura “Villa Verde”, Via Golfo di Taranto, 22, Taranto, Italia

2 Dipartimento di Medicina Clinica, Sanità Pubblica, Scienze della vita e dell’ambiente, Università di L’Aquila, L’Aquila, Italia

3 Dipartimento Cardiovascolare e Neurologico, Ospedale San Donato, via Nenni, 20/22, Arezzo, Italia

4 Cardiologia, Ospedale “Di Venere”, Bari, Italia

5 Cardiologia, Policlinico Casilino, via Casilina, Roma 1049, Italia

6 Dipartimento di Scienze medico-chirurgiche e Biotecnologie , Università Sapienza , Latina, Italia

7 Cardiocentro Mediterranea, Napoli, Italia

8 Cardiologia, Ospedale P. Pederzoli, Peschiera Del Garda (VR), Italia

La fibrillazione atriale (FA) è la più comune tra le aritmie sostenute, colpisce circa il 3% della popolazione adulta ed è associata ad un aumentato rischio di ictus, scompenso cardiaco, riduzione della sopravvivenza e della qualità della vita.

Le tecniche di ablazione sono ad oggi considerate superiori alla terapia farmacologica nella strategia di controllo del ritmo (studi RAAFT, CABANA, EAST-AFNET4). Tuttavia, nonostante i progressi tecnologici e l’esperienza sempre maggiore degli operatori, i risultati post ablazione di FA sembrano aver raggiunto un plateau. Inoltre, sebbene la frequenza di complicanze sia bassa, è comunque rimasta invariata nel tempo. Per di più alcune complicanze, anche se rare, possono essere inaccettabili, come recentemente dimostrato nell’ESS–PRAFA snapshot.

Nell’ultimo ventennio sono stati messi in atto numerosi sforzi sul piano tecnologico e organizzativo per migliorare la qualità e la performance dei laboratori di elettrofisiologia ma pochi per personalizzare l’approccio al singolo paziente, che spesso intraprende un percorso standardizzato verso l’ablazione.

Al fine di migliorare il rapporto efficacia/rischio, il nostro gruppo propone una programmazione personalizzata della procedura di ablazione (fig.1), che selezioni, caso per caso, strategie di intervento differenti sulla base degli specifici meccanismi fisiopatologici dell’aritmia.

L’FA può essere classificata sulla base della durata dell’episodio in: parossistica (<7 giorni), persistente (>7 giorni, o che necessiti di una cardioversione a prescindere dalla durata) e permanente (ininterrotta, strategia di controllo del ritmo non prevista). 

La fisiopatologia aritmica è descritta dal triangolo di Coumel: trigger, substrato aritmogeno e fattori modulanti.

Più frequentemente la forma di FA parossistica è trigger-relata mentre la persistente è sostenuta da uno specifico substrato. Per questo, nel setting di FA persistente è fondamentale la corretta caratterizzazione del substrato e dei meccanismi che sostengono l’aritmia al fine di programmare una strategia ablativa che vada oltre le vene polmonari. La forma parossistica è invece fortemente influenzata dalle comorbidità (ipertensione, diabete, obesità). In entrambi i casi, l’ablazione dell’aritmia non può prescindere da un preciso inquadramento clinico.

C’è tuttavia da tener conto del fatto che la correlazione tra classificazione e fisiopatologia è scarsa, senza dimenticare il ruolo del terzo attore del triangolo di Coumel, i fattori modulanti. Ad esempio, nei pazienti con FA vago-mediata esiste la possibilità di modificare l’influenza del sistema nervoso autonomo andando ad ablare i plessi gangliari intramurali, in aggiunta al trattamento ablativo standard.

Di volta in volta, è importante prendere in considerazione tutti gli strumenti a disposizione, che possono aiutare ad identificare i meccanismi che triggerano o mantengono l’FA. Quando non otteniamo abbastanza informazioni cliniche dai test non invasivi, potrebbe essere indicato, prima dell’ablazione, uno studio elettrofisiologico mirato ad indagare trigger diversi dalle vene polmonari, con la duplice finalità di raggiungere un migliore successo a lungo termine e di eseguire una procedura tecnicamente più semplice, con tassi di complicanze minori. Oggi l’evoluzione tecnologica permette di osservare il substrato con nuovi occhi: nuovi cateteri multipolari e tecniche di mappaggio 3D ad alta densità. Possono quindi essere proposte ablazioni più puramente anatomiche, con procedure chirurgiche, o meglio ibride, che facilitano il trattamento efficace di strutture difficili da raggiungere nel contesto di procedure completamente endocardiche (parete posteriore dell’atrio sinistro, legamento di Marshall, fascio di Bachmann).

L’approccio personalizzato, tuttavia, può risultare time-consuming e talvolta ritardate la strategia ablativa.

Ciò nonostante, la programmazione per step delle procedure di ablazione, adattata al paziente e alle caratteristiche della sua aritmia, dovrebbe essere routinaria in ogni laboratorio di elettrofisiologia.

L’accurata ricerca dei trigger nella FA parossistica ed il corretto riconoscimento del legame tra una possibile patologia cardiaca ed il substrato nella FA persistente potrebbe permettere di superare l’attuale plateau in termini di successo della procedura ablativa ed al contempo di minimizzarne le complicanze.

Aritmie ventricolari negli atleti: ruolo di un work-up diagnostico completo.

A cura di Adelina Selimi

ABSTRACT

Le aritmie ventricolari rappresentano una criticità per la valutazione dell’idoneità sportiva negli atleti. L’iter diagnostico ideale di atleti agonisti con aritmie ventricolari complesse non è stato chiaramente definito. Lo scopo di questo studio è stato valutare le implicazioni cliniche della valutazione elettrofisiologica invasiva e della biopsia endomiocardica in atleti con aritmie ventricolari.

Sono stati valutati 227 atleti giunti a valutazione dopo essere stati squalificati a causa di aritmie ventricolari.

In questo studio, un work-up invasivo completo ha fornito elementi diagnostici aggiuntivi e potrebbe migliorare la valutazione dell’idoneità sportiva negli atleti che si presentano con aritmie ventricolari.  Un’estesa valutazione invasiva potrebbe essere particolarmente utile quando i test non invasivi mostrano risultati poco chiari.

In questo studio di Dello Russo et al (1) è stata condotta un’analisi retrospettiva di atleti arruolati in due centri, all’Unità Operativa di Aritmologia, Centro di Cardiologia Monzino, IRCCS, Milano, Italia, e presso la Clinica di Cardiologia e Aritmologia, Azienda Ospedaliera-Universitaria “Ospedali Riuniti”, Ancona, Italia.

Da Febbraio 2010 a Settembre 2019, sono stati arruolati 227 atleti squalificati dalla partecipazione a gare sportive a causa di tachicardie ventricolari non sostenute (NSVTs), tachicardie ventricolari sostenute (SVT), complessi ventricolari prematuri (PVC) frequenti o PVC da sforzo di qualsiasi morfologia rilevate al monitoraggio ECG o al test ergometrico, o fibrillazione ventricolare (VF) rianimata.

L’iniziale valutazione diagnostica non invasiva comprendeva test ergometrico, ecocardiogramma, risonanza magnetica cardiaca (cMRI) e angio-TC coronarica (se sospetto di malattia coronarica aterosclerotica). Dopo gli esami non invasivi sono stati eseguiti, seguendo un protocollo istituzionale prestabilito, lo studio elettrofisiologico (EPS) ed il mappaggio elettroanatomico tridimensionale (EAM) in caso di diagnosi dubbia dopo gli esami non invasivi o in caso di diagnosi di certezza in previsione di ablazione trans-catetere.

La biopsia endomiocardica (EMB) guidata dall’EAM o dall’imaging in cMRI è stata invece eseguita in caso di incertezza diagnostica dopo i test non invasivi, EAM ed EPS. Inoltre, quando si sospettava clinicamente una miocardite, sono stati eseguiti EAM, EPS ed EMB per confermare la diagnosi. In caso di diagnosi clinica di cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro (ARVC), il work-up invasivo completo è stato eseguito ai fini di diagnosi differenziale tra ARVC e il cuore d’atleta.

L’età media della coorte era di 26 anni, e 44 soggetti (19%) erano di sesso femminile. La maggior parte (176 [78%]) erano atleti agonisti. PVC frequenti o PVC da sforzo erano le aritmie ventricolari più comuni alla presentazione (180 [79%]). Circa la metà degli atleti erano sintomatici (111 [49%]), più comunemente per cardiopalmo (82 [36%]), mentre 17 soggetti (8%) avevano una storia di sincope. Una storia familiare di morte cardiaca improvvisa (9 [4%]) o cardiomiopatia (7 [3%]) era presente in una minoranza di atleti.

Complessivamente, al termine della valutazione non invasiva, 81 pazienti avevano risultati normali, in 20 pazienti è stata identificata una miocardite clinicamente sospetta ed in 13 pazienti è stata diagnosticata clinicamente l’ARVC (9 con diagnosi borderline e 4 con diagnosi definitiva).

L’EAM è stato eseguito in 188 pazienti (83%). I risultati dell’EAM sono risultati anomali in 46 pazienti (24%), con evidenza di cicatrice miocardica (45) e/o potenziali tardivi (12).

L’EMB è stata eseguita in 42 atleti (15,2%) e ha permesso la formulazione di una diagnosi patologica in 32 atleti (76%). La diagnosi più comune era la miocardite (19 [45,2%]), mentre in 9 pazienti (23,8%) l’EMB ha permesso una diagnosi istopatologica di ARVC. È interessante notare che l’EMB ha consentito l’upgrade da diagnosi borderline a diagnosi definitiva di ARVC in 5 atleti.

Nel complesso, una cardiopatia strutturale è stata diagnosticata in 102 pazienti (45%) nell’intera popolazione di studio. Le patologie più comuni identificate erano miocardite (33 [15%]), cardiomiopatia dilatativa (23 [10%]) e ARVC (17 [8%]).

Tra i soggetti sottoposti a EMB, le diagnosi più frequenti erano miocardite (21 [50%]) e ARVC (13 [31%]). Quest’ultima interessava esclusivamente il ventricolo destro in 6 casi (46%), mentre 5 pazienti avevano interessamento biventricolare (39%) e 2 (15%) avevano un interessamento solo del ventricolo sinistro. Infine, 20 pazienti sono stati sottoposti ad impianto di ICD in prevenzione primaria (12) o secondaria (8).

La valutazione invasiva completa, inclusa l’EMB, ha consentito la riclassificazione diagnostica in 21 atleti (50%). La riclassificazione è stata particolarmente comune nel sottogruppo di pazienti con diagnosi non conclusiva dopo i test non invasivi (23 [87%]). La prevalenza di patologie cardiache nel campione è passato dal 30% (intervallo di confidenza (IC) al 95% 24-36%) quando si considerano solo i test non invasivi, al 37% (IC 95% 31-43%) dopo aver eseguito EAM ed EPS, ed infine al 45% (IC 95% 39-51%) dopo aver eseguito EMB.

DISCUSSIONE

Questi dati suggeriscono che: (1) dopo una valutazione non invasiva inclusa la cMRI, un certo grado

di incertezza diagnostica persiste in più di un terzo degli atleti con aritmie ventricolari, (2) un work-up diagnostico invasivo, inclusi EAM, EPS e EMB, potrebbe migliorare la definizione diagnostica, (3) in termini di riclassificazione, i test invasivi hanno avuto un impatto maggiore nei casi in cui i test non invasivi non hanno portato a una diagnosi definitiva, (4) questo lavoro ha fornito elementi importanti per la stratificazione del rischio aritmico e ha aiutato nella selezione dei pazienti candidati ad impianto di ICD.  

Questi dati mostrano che non c’è stata riclassificazione diagnostica alla valutazione invasiva in atleti con risultati normali ai test non invasivi, confermando che i test non invasivi possono servire efficacemente come strumento per la stratificazione del rischio negli atleti e per selezionare i candidati ad ulteriori esami.

CONCLUSIONE

Un work-up diagnostico completo in questo studio ha fornito elementi diagnostici aggiuntivi e potrebbe migliorare la valutazione dell’idoneità sportiva negli atleti che si presentano con aritmie ventricolari. L’estesa valutazione con test invasivi potrebbe essere particolarmente utile quando i test non invasivi mostrano risultati poco chiari.

Dello Russo A, Compagnucci P, Casella M, Gasperetti A, Riva S, Dessanai MA, Pizzamiglio F, Catto V, Guerra F, Stronati G, Andreini D, Pontone G, Bonomi A, Rizzo S, Di Biase L, Capucci A, Natale A, Basso C, Fiorentini C, Zeppilli P, Tondo C. Ventricular arrhythmias in athletes: Role of a comprehensive diagnostic workup. Heart Rhythm. 2022 Jan;19(1):90-99.

doi: 10.1016/j.hrthm.2021.09.013.

Senza-titolo

Contribution of Atrial Fibrillation to In-Hospital Mortality in Patients With COVID-19

 Authors: 

Enrico Guido Spinoni 1-2, Marco Mennuni 2, Andrea Rognoni 2, Leonardo Grisafi 1-2, Crizia Colombo 1-2, Veronica Lio 1-2, Giulia Renda 3, Melissa Foglietta 3, Ivan Petrilli 3, Damiano D’Ardes 3, Pier Paolo Sainaghi 1-2, Gianluca Aimaretti 1-2, Mattia Bellan 1-2, Luigi Castello 1-2, Gian Carlo Avanzi 1-2, Francesco Della Corte 1-2, Marco Krengli 1-2, Mario Pirisi 1-2, Mario Malerba 1-4, Andrea Capponi 2, Sabina Gallina 3, Sante Donato Pierdomenico 3, Francesco Cipollone 3, Giuseppe Patti 1-2, COVID-UPO Clinical Team. 

Affiliations

1 Università del Piemonte Orientale, Novara; 2 AOU Maggiore della Carità, Novara; 3 Università Gabriele d’Annunzio, Chieti-Pescara;  4 Ospedale Sant’Andrea, Vercelli. 

 Commentary 

Atrial fibrillation (AF) shares with CoronaVirus Infective Disease (COVID-19) various prevalent cardiovascular (CV) co-morbidities (1-2). The occurrence of AF in patients with COVID-19 and its impact on outcome have not been specifically evaluated yet. 

We investigated the incidence and prognostic impact of different subgroups of AF (historical and new onset) in consecutive patients hospitalized for COVID-19. A total of 637 patients, admitted in three major Italian hospitals, were included. In-hospital outcomes were investigated, choosing as primary endpoint the incidence of all-cause mortality and as secondary endpoints: the occurrence of CV death, non-CV death and severe acute respiratory distress syndrome (ARDS). 

We included a total of 637 patients, 503 (79%) patients with stable sinus rhythm, and 134 (21%) in-hospital AF (historical in 79 patients and new-onset in 55). Patients with AF were older and presented a higher prevalence of various comorbidities: arterial hypertension, diabetes, cardiomyopathy, peripheral artery disease, chronic kidney disease, and chronic obstructive pulmonary disease. Our study outlined higher in-hospital mortality in patients with AF (44.4% versus 22.1% in those without, P=0.001); 30-day estimated survival rates by Kaplan-Meier method were 39.6% (95% CI, 27.8%–50.8%) versus 59.4% (51.4%–66.5%), respectively (log-rank P<0.001; Figure panel A). We performed logistic regression analysis, including demographic 

factors, comorbidities, laboratory findings, and in-hospital treatments. At multivariate analysis the occurrence of AF was significantly associated with an increased risk of all-cause death (OR 2.44, 95% CI 1.18-5.07; p=0.016), CV death (OR 3.26, 95% CI 1.2–9.5; p=0.03) and severe ARDS (OR 1.96, CI 95% 1.07-3.6; p=0.03). 

Patients with new-onset AF showed an increased incidence of in-hospital death (49.1% versus 36.7%), cardiovascular mortality (14.6% versus 5.1%), and ARDS (49.1% versus 29.7%) 

compared with those with historical AF. The 30-day estimated survival rates were 44.3% (95% CI, 27.7%–59.6%) in patients with historical AF (log-rank p=0.007 versus no AF) and 30.8% (17.4%–45.2%) in those with new-onset AF (log-rank p<0.001 versus no AF; Figure [B]). Using patients without AF as reference, a stepwise increase in the risk of all-cause death across patients with historical AF (adjusted OR 1.26, 0.58-2.74) and those with new onset AF (adjusted OR 3.34, 1.54-7.25) was demonstrated. 

Our study suggests the hypothesis that new-onset of AF in patients hospitalized for COVID-19 represent an independent predictor oin-hospital mortality, CV death, and more severe clinical pattern. In such setting, new-onset AF may represent potential clinical marker of adverse outcomes, as it is associated by higher degree of inflammatory and hypoxemic viral insult. 

In conclusion, our study support the hypothesis that in patients hospitalized for COVID-19, the occurrence of AF is frequent and is independently associated with adverse outcome, including increased all-cause and cardiovascular mortality. 

Figure: Kaplan-Meier curves at 30 days. Estimates of survival stratified by presence/absence of atrial fibrillation (AF; A) and by AF subtypes (B) are illustrated. 

References: 

1. Palmieri L, Vanacore N, Donfrancesco C, Lo Noce C, Canevelli M, Punzo O, Raparelli V, Pezzotti P, Riccardo F, Bella A, et al.; Italian National Institute of Health COVID-19 Mortality Group. Clinical characteristics of hospitalized individuals dying with COVID-19 by age group in Italy.J Gerontol A Biol Sci Med Sci. 2020; 75:1796–1800. 

2. Inciardi RM, Adamo M, Lupi L, Cani DS, Di Pasquale M, Tomasoni D, Italia L, Zaccone G, Tedino C, Fabbricatore D, et al. Characteristics and outcomes of patients hospitalized for COVID-19 and cardiac disease in Northern Italy.Eur Heart J. 2020; 41:1821–1829. 

Read more on: 

https://www.ahajournals.org/doi/10.1161/CIRCEP.120.009375?url_ver=Z39.88-2003&rfr_id=ori:rid:crossref.org&rfr_dat=cr_pub%20%200pubmed

Figura

torino

Machine learning-based prediction of adverse events following an acute coronary syndrome (PRAISE): a modelling study of pooled datasets

Authors: Fabrizio D’Ascenzo, Ovidio De Filippo, Guglielmo Gallone, Gianluca Mittone, Marco Agostino Deriu, Mario Iannaccone, Albert Ariza-Solé, Christoph Liebetrau, Sergio Manzano-Fernández, Giorgio Quadri, Tim Kinnaird, Gianluca Campo, Jose Paulo Simao Henriques, James M Hughes, Alberto Dominguez-Rodriguez, Marco Aldinucci, Umberto Morbiducci, Giuseppe Patti, Sergio Raposeiras-Roubin, Emad Abu-Assi, Gaetano Maria De Ferrari

Commentary by: Fabrizio D’Ascenzo

Division of Cardiology, Cardiovascular and Thoracic Department, Città della Salute e della Scienza, Turin, Italy

Patients with acute coronary syndrome (ACS) are at high risk for ischaemic and bleeding events, with both being drivers of adverse prognosis. Careful evaluation of these risks plays a fundamental role in the clinical management of each patient, with important implications regarding the choice of optimal medical therapy for secondary prevention. To this aim, several predictive tools have been developed to estimate ischaemic and bleeding risks following an ACS, some of which have potential to support clinical decision making around the optimal duration of dual antiplatelet therapy (DAPT). However, the overall accuracy of these scores, along with their generalisability to external cohorts, remains modest, representing an unmet need for individualised patient management strategies.

            Thus, to overcome the analytical limitations of current predictive tools, D’Ascenzo et al. adopted a machine learning-based approach to develop a risk stratification model to predict all-cause death, recurrent acute myocardial infarction, and major bleeding after ACS.

            A dataset of 19 826 adult patients with ACS obtained from the observational BleeMACS and RENAMI intercontinental registries served as derivation cohort. A dataset of 3444 adult patients with ACS obtained from the European SECURITY randomised controlled trial, the FRASER registry, the Prospective Registry of Acute Coronary Syndromes in Ferrara and the Clinical Governance in Patients with ACS project of the Fondazione IRCSS Policlinico S Matteo served as the validation cohort.

The structured dataset included 25 variables: 16 clinical variables (age, sex, diabetes, hypertension, hyperlipidaemia, peripheral artery disease, estimated glomerular filtration rate [EGFR; using the Modification of Diet in Renal Disease study formula21], previous myocardial infarction, previous percutaneous coronary intervention, previous coronary artery bypass graft, previous stroke, previous bleeding, malignancy, ST-segment elevation myocardial infarction [STEMI] presentation, haemoglobin, and left ventricular ejection fraction [LVEF]), five therapeutic variables (treatment with β blockers, angiotensinconverting enzyme inhibitors or angiotensin-receptor blockers, statins, oral anticoagulation, and proton-pump inhibitors), two angiographic variables (multivessel disease and complete revascularisation), and two procedural variables (vascular access and percutaneous coronary intervention with drug-eluting stent).

Four machine learning models using different classifiers were developed to predict the occurrence of each of three outcomes: all-cause death, recurrent acute myocardial infarction, and major bleeding 1 year after discharge.

The derivation cohort was randomly split into two datasets: a training (80%) cohort, which was used to train the four machine learning models and tune their parameters, and an internal validation (20%) cohort, which was used to test the developed models on unseen data and to fine-tune the hyperparameters. The best-performing model for each study outcome (that resulted to be the adaptive boosting classifier for all the outcomes) was selected as the PRAISE model.

The PRAISE score showed an AUC of 0.82 (95% CI 0.78–0.85) in the internal validation cohort and 0.92 (0.90–0.93) in the external validation cohort for 1-year all-cause death; an AUC of 0.74 (0.70–0.78) in the internal validation cohort and 0.81 (0.76–0.85) in the external validation cohort for 1-year myocardial infarction; and an AUC of 0.70 (0.66–0.75) in the internal validation cohort and 0.86 (0.82–0.89) in the external validation cohort for 1-year major bleeding (Figure 1).

            To translate the model data into clinically relevant information, the 23 270 patients of the pooled dataset were grouped into levels of low, intermediate, and high risk with thresholds reflecting clinically meaningful gradients in risk from one group to the next, and cross-classification of the pooled cohorts with myocardial infarction and major bleeding risk scores was determined (i.e., classes were established by combining the risk categories of the myocardial infarction and major bleeding PRAISE scores, Figure 2). The hypothetical trade-off between ischaemic and bleeding risks for each patient was assessed by plotting the absolute observed risk difference between myocardial infarction and major bleeding in each of the nine risk classes against the predicted myocardial infarction and major bleeding risk in each class (Figure 3). Among patients classified as being at high risk of myocardial infarction, the absolute observed risk difference between myocardial infarction and major bleeding events supported a consistent prevailing ischaemic risk regardless of the major bleeding PRAISE risk class (with the exception of the highest PRAISE bleeding risk decile). For patients classified as being at low risk of myocardial infarction, their risk of major bleeding exceeded their risk of myocardial infarction once they were classified as being at intermediate-to-high risk of major bleeding.

            In summary, the PRAISE scores presented excellent discriminative abilities for the prediction of 1-year all-cause death, myocardial infarction, and major bleeding following an ACS, also when externally validated. Clinically meaningful risk cutoffs for all-cause death, myocardial infarction, and major bleeding PRAISE scores would classify 60% of patients with ACS as being at low risk (<1% probability) of post-discharge ischaemic and bleeding events 1 year after discharge, and 10% of patients with ACS as being at high risk (>19%) of these events. Moreover, robust hypothetical trade-offs in the occurrence of ischaemic and bleeding events were observed for each patient according to their myocardical infarction and major bleeding score classes, that may in theory allow for DAPT tailored treatment, if prospectively studied and validated in a randomized fashion.

In conclusion, this study showed that a machine learning-based approach in the setting of post-ACS risk prediction is feasible and effective with potentially important implications on the optimization of the quality of care.

Read More: https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/33453782/

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Optimal P2Y12 inhibition in older adults with acute coronary syndromes: A network meta-analysis of randomized controlled trials


Claudio Montalto 1Nuccia Morici 2Andrea Raffaele Munafò 1Antonio Mangieri 3Alessandro Mandurino-Mirizzi 1Fabrizio D’Ascenzo 4Jacopo Oreglia 2Azeem Latib 5Italo Porto 6 7Antonio Colombo 3Stefano Savonitto 8Stefano De Servi 9Gabriele Crimi 6 7

Affiliazioni

  • 1Division of Cardiology, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, Pavia, Italy.
  • 2Dipartimento Cardio-toracovascolare, SS UTIC/SC Cardiologia 1-Emodinamica, ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda, Milano, Italy.
  • 3GVM Care and Research, Maria Cecilia Hospital, Cotignola, Ravenna, Italy.
  • 4Division of Cardiology, Department of Medical Sciences, University of Turin, Turin, Italy.
  • 5Department of Cardiology, Montefiore Medical Center, Bronx, New York, USA.
  • 6Department of Cardiology, Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico, AOU San Martino IST, Università di Genova, Genova, Italy.
  • 7IRCCS Italian Cardiovascular Network.
  • 8Division of Cardiology, A. Manzoni Hospital, Lecco, Italy.
  • 9University of Pavia, Pavia, Italy.

Commento di Claudio Montalto, Policlinico San Matteo, Pavia.

Uno dei temi più dibattuti e di difficile applicazione nel trattamento delle sindromi coronariche acute è quale terapia antiaggregante scegliere per i soggetti anziani, che, e per fragilità intrinseca, e per comorbidità (quali insufficienza renale cronica, anemia, o piastrinopenia), presentano sia un rischio di recidiva ischemica che un rischio emorragico elevato. Come scegliere dunque, tra una terapia antiaggregante più potente (ma pro-emorragica) con i nuovi inibitori P2Y12 prasugrel e ticagrelor oppure alla terapia standard con clopidogrel? Le linee guida internazionali non si sbilanciano in tal senso in mancanza di studi dedicati, e nonostante la popolazione anziana rappresenti una grande porzione del totale dei soggetti affetti da infarto.

In aiuto del clinico viene una recente meta-analisi pubblicata su European Heart Journal – cardiovascular Pharmacotherapy, in cui sono stati inclusi tutti i trial clinici randomizzati che hanno anche una popolazione di soggeti anziani, per un totale di 14,485 pazienti-anno con infarto miocardico inclusi nello studio.(1) Attraverso un’analisi bayesiana si è evidenziato come l’uso di prasugrel sia associato ai migliori risultati in termini di riduzione di morte, infarto e ictus ischemico, mentre il clopidogrel è risultato il miglior farmaco per ridurre i sanguinamenti (Figura). Il ticagrelor non si è dimostrato particolarmente favorevole in questa sottopopolazione, dimostrando un vantaggio solo in termini di riduzione del rischio di trombosi di stent.

Dunque, nei soggetti anziani il rischio ischemico e di sanguinamento dovrebbero essere soppesati attentamente e la terapia antiaggregante bilanciata di conseguenza, non evitando, ma anzi prediligendo, l’uso di prasugrel nei soggetti senza un elevato rischio di sanguinamento, per i quali invece è preferibile l’uso del clopidogrel.

I soggetti anziani non dovrebbero essere considerati ad alto rischio solo sulla base della loro età, e per aiutare il clinico nell’individuazione dei soggetti anziani ad elevato rischio di sanguinamento, il PRECISE-DAPT score(2) è stato validato anche in questa popolazione. E’ un pratico tool di calcolo, che richiede solo 5 semplici parametri: età, funzione renale, emoglobina, globuli bianchi, e precedente storia di sanguinamento.(3) Un calcolatore online gratuito è disponibile al sito web: http://www.precisedaptscore.com/ e anche su dispositivi mobile Apple e Android

Bibliografia

1.        Montalto C, Morici N, Munafò AR, Mangieri A, Mandurino-Mirizzi A, D’Ascenzo F, et al. Optimal P2Y12 inhibition in older adults with acute coronary syndromes: A network  meta-analysis of randomized controlled trials. Eur Hear journal Cardiovasc Pharmacother. 2020 Aug;

2.        Costa F, van Klaveren D, James S, Heg D, Räber L, Feres F, et al. Derivation and validation of the predicting bleeding complications in patients undergoing stent implantation and subsequent dual antiplatelet therapy (PRECISE-DAPT) score: a pooled analysis of individual-patient datasets from clinical trials. Lancet. 2017;389(10073):1025–34.

3.        Montalto C, Crimi G, Morici N, Piatti L, Grosseto D, Sganzerla P, et al. Bleeding Risk Prediction in Elderly Patients Managed Invasively for Acute Coronary Syndromes: External Validation of the PRECISE-DAPT and PARIS Scores. Int J Cardiol. 2020 Apr;2020:22–8.

Read More https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32835355/

single versus dapt photo

Single Versus Dual Antiplatelet Therapy Following TAVR: A Systematic Review and Meta-Analysis of Randomized Controlled Trials

Autori Paul Guedeney*1Sabato Sorrentino*2Jules Mesnier1Salvatore De Rosa2Ciro Indolfi2Michel Zeitouni1Mathieu Kerneis1Johanne Silvain1Gilles Montalescot1Jean-Philippe Collet1

1 Department of Cardiology, ACTION Study Group, Sorbonne Université- Univ Paris 06 (UPMC), INSERM UMRS 1166, Institut de Cardiologie, hôpital Pitié Salpêtrière, Paris, France.

2 Università degli Studi di Catanzaro “Magna Graecia”

*Equally contributed

Commentary by Michele Cacia

Università degli Studi di Catanzaro “Magna Graecia”

La definizione di una strategia antitrombotica standardizzata durante e dopo impianto percutaneo di valvola aortica (TAVR) è un tema tutt’oggi di difficile definizione, reso ancor più controverso dall’esigua mole di dati disponibili in letteratura. Un’interessante meta-analisi recentemente pubblicata su JACC Cardiovascular Intervention ha posto l’accento su questo topic sempre più attuale. Sono stati inclusi 4 trials per un totale di 1086 pazienti di cui 547 erano maschi (50.5%), 293 (30%) diabetici e 851 (78.4%) ipertesi. Nella maggioranza dei pazienti reclutati è stata impiantata una valvola aortica per via percutanea attraverso accesso femorale (944 pazienti, 86.9%). Nei pazienti trattati con DAPT, il Clopidogrel veniva iniziato un giorno prima della procedura e continuato in media per circa 3 mesi. Il follow up mediano e stato di circa 4.5 mesi [IQ 2.5-7.5]. I risultati di questa metanalisi hanno dimostrato come, rispetto alla DAPT, la monoterapia era associata ad una riduzione dei sanguinamenti pericolosi per la vita e disabilitanti (2.6% vs. 4.6% RR:0.56; 95%CI: 0.30-1.07, p=0.08) e del rischio di sanguinamento maggiore (2.6% vs. 6.4% RR:0.40; 95%CI: 0.22-0.74, p=0.003). Inoltre, non veniva documentata alcuna differenza in termini di mortalità per tutte le cause, infarto del miocardio, o stroke (Figura).

Nonostante l’eterogeneità nel disegno degli studi coinvolti in questa analisi, in particolare una differente durata del follow up e della DAPT, questa meta-analisi supporta l’utilizzo di un singolo agente antiaggregante dopo TAVI.

Read More: https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/33478644/

Figura

Commentary-ICOT

Accuracy of global and regional longitudinal strain at peak of dobutamine stress echocardiography to detect significant coronary artery disease

First author: Federica Ilardi

Department of Advanced Biomedical Sciences, Federico II University Hospital, Via S. Pansini, 5, 80131 Napoli NA, Italy

Dobutamine stress echocardiography (DSE) is a sensitive diagnostic tool to detect inducible ischemia, thanks to its good diagnostic accuracy. However, it remains a subjective method, limited by operators experience on image acquisition and interpretation. Moreover, the detection of myocardial ischemia during DSE seems to be even more challenging in the presence of pre-existing wall motion abnormalities.

Nowadays, speckle tracking allows an objective quantification of regional wall function. To date, few reports have described the ability of speckle tracking to detect myocardial ischemia during DSE and mostly in patients without previous regional wall motion abnormalities. Considering the exclusion of patients with previous history of coronary artery disease from these studies, their results cannot be extended to this subset of patients.

In the present study, we aimed to investigate the feasibility and accuracy of global (GLS) and regional longitudinal strain (RLS) during DSE to detect significant coronary stenosis (SCS), in both patients with and without previous wall motion abnormalities.

We conducted a prospective, observational, multicenter study, including 88 patients undergoing DSE for suspected CAD. Patients with negative DSE (n=33), suboptimal RLS (n=2) and that refused consent (n=3), were excluded from further analysis. The remaining 50 patients (82% males, mean age 66.3±8.2 years) with positive DSE underwent subsequent invasive coronary angiography (CA). Besides visual regional wall motion score index (WMSI), GLS and RLS were determined at rest and at peak stress by a dedicated software (Automated Function Imaging) incorporated in a quoad-screen of the echo machine and activated by automatic quantification. Obstructive CAD was defined as >70% stenosis or intermediate stenosis combined with fractional flow reserve <0.80.

We found that speckle tracking can be performed during DSE, allowing a correct and almost complete analysis of myocardial deformation, at every stages of stress protocol  (the feasibility of RLS was 96% in the pooled population). Fifteen patients did not show significant coronary artery stenosis whereas obstructive CAD was detected in 35 patients. At peak stress, both GLS reduction (p=0.037) and WMSI worsening (p=0.04) showed significant agreement with coronary angiography for detecting SCS. When single lesion was considered, peak stress GLS and LAD RLS were lower in the obstructed LAD regions than in normo-perfused territories (17.4±5.5 vs 20.5±4.4%, p=0.03; 17.1±7.6 vs 21.6±5.5%, p<0.02, respectively). Furthermore, the addition of RLS to regional WMSI was able to improve accuracy in LAD SCS prediction (AUC 0.68, p=0.037). Conversely, in presence of LCX or RCA SCS, longitudinal strain was less accurate than WMSI at peak stress.

This incremental value of strain imaging at DSE peak could represent an additional tool in reducing false negative results obtained by visual assessment, especially in patients with suspected LAD disease. LAD is usually the largest of the 3 epicardial coronary artery and subtends about 50% of the LV myocardial mass. The presence of significant LAD disease has been associated with worse prognosis than SCS involving other coronary arteries. Thus, given the extent and functional relevance of the myocardial territories supplied by LAD coronary artery, a properly and timely detection of LAD stenosis represents an appealing task. Moreover, the incremental value of GLS and RLS in the detection of LAD SCS seems to be even more useful in patients with previous wall motion abnormalities, in whom the identification of residual and/or new areas of ischemia is even more challenging.

In conclusion, AFI-based strain quantitative analysis appears to be highly feasible during DSE and more accurate than the visual wall motion assessment for the detection of myocardial ischemia in presence of LAD. Conversely, strain accuracy is suboptimal in patients with LCX and RCA stenosis, possibly due to scarce visualization of myocardial segments perfused by these two arteries and/or to perfusion territory overlap. Future multicenter study on larger population sample size are needed to test the usefulness of strain imaging during DSE.     

Read More: https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/33433744/