Short-Term-sequelae-of-Multisystem-Inflammatory-Syndrome-in-Children

Short-Term sequelae of Multisystem Inflammatory Syndrome in Children Assessed by CMR

Ivan Altamar Bermejo et al. Department of Pediatric Cardiology. Royal Brompton Hospital. Sydney Street London SW3 6NP, United Kingdom

Commentary Roberta Lotti 

A seguito della diffusione dell’infezione pandemica da Sars-CoV2, nuove entità cliniche sono state progressivamente riconosciute, benché il loro inquadramento sia ancora in corso. In particolare, nella popolazione pediatrica, dall’aprile 2020 è stata riscontrata la comparsa della cosiddetta            “Sindrome Infiammatoria Multisistemica”, che, inizialmente misdiagnosticata come forma di Sindrome di Kawasaki, è stata successivamente identificata come entità clinica propria. La correlazione al Sars-CoV2 è evidente dal momento che essa è emersa durante la pandemia, tuttavia l’esatto meccanismo fisiopatologico è tuttora oggetto di ricerca. Questa sindrome colpisce prevalentemente bambini di età più avanzata, si verifica generalmente a poche settimane di distanza da una infezione da Sars-CoV2 asintomatica o paucisintomatica ed è caratterizzata dalla comparsa di febbre persistente, sintomi gastrointestinali, rash cutanei e ipereremia congiuntivale. Il coinvolgimento cardiovascolare in tale contesto non è infrequente e può manifestarsi con disfunzione ventricolare sinistra (da lieve sino allo shock cardiogeno), aneurismi coronarici e aritmie. Tuttavia, se poco si sa finora della malattia stessa, ancora meno è noto sulle sequele che essa provoca.

Qui abbiamo la fortuna di poter leggere un primo interessantissimo studio di follow-up a breve termine sulle sequele cardiologiche valutate tramite Risonanza Magnetica Nucleare (RMN) cardiaca. Lo studio ha raccolto ben 44 pazienti con diagnosi di Sindrome Infiammatoria Multisistemica che abbiano avuto coinvolgimento cardiaco valutato come disfunzione ventricolare sinistra, aneurismi coronarici, o rialzo di troponine o NTproBNP. I pazienti sono stati sottoposti a RMN cardiaca a distanza di 12-72 giorni dall’insorgenza dei sintomi e hanno dimostrato risultati incoraggianti. Per saperne di più leggete questo splendido articolo!

Abstract grafico commento MINOCA[1] - Sola lettura

Pharmacological therapy for the prevention of cardiovascular events in patients with myocardial infarction with non-obstructed coronary arteries (MINOCA): Insights from a multicentre national registry

Autori: Ciliberti G, Verdoia M, Merlo M, et al.

Commentary by Dr. Roberto Manfredi

Scuola di Specializzazione in Malattie dell’Apparato Cardiovascolare

SOD Clinica di Cardiologia e Aritmologia

Azienda Ospedaliero Universitaria Ospedali Riuniti Umberto I – Lancisi – Salesi

Via Conca 71, 06126, Ancona, Italy

e-mail: manfredirobe@gmail.com

I pazienti con MINOCA costituiscono il 2-6% del totale degli infarti miocardici [1, 2], seppur con eterogeneità epidemiologiche e fisiopatologiche che li distinguono dalle sindromi coronariche acute CAD-relate [1, 2],. Per porre la diagnosi di MINOCA, è necessario che ci sia evidenza di un infarto miocardico acuto in assenza di stenosi coronariche epicardiche ³50% e con un meccanismo di tipo ischemico, cioè avendo ragionevolmente escluso ipotesi di miocardite o scompenso cardiaco [3].

Un documento dedicato della Società Europea di Cardiologia raccomanda di considerare la condizione di MINOCA come una “working diagnosis”, in un percorso volto all’approfondimento dei meccanismi fisiopatologici sottesi al fine di una corretta gestione terapeutica del caso [4].

In mancanza di evidenze da RCTs dedicati, le indicazioni terapeutiche sono spesso estrapolate da trial di prevenzione secondaria di sindromi coronariche acute CAD-relate [5], sebbene nella maggior parte degli studi esistenti gli attuali criteri diagnostici del MINOCA non siano applicati [6, 7].

Il lavoro in esame [6] è uno studio multicentrico retrospettico basato su una popolazione complessiva di 621 pazienti dimessi da 9 ospedali italiani “Hub” in un periodo di 6 anni con la diagnosi di MINOCA secondo i criteri definiti dalla IV Definizione Universale dell’Infarto Miocardico [1], con un follow-up mediano di 90 mesi [45.6 – 135].

Sono stati presi in considerazione aspetti demografici, anamnestici, elettrocardiografici, ecocardiografici, angiografici (tre sottogruppi: [i] assenza di stenosi ³30%, [ii] lieve malattia coronarica mono o bivasale con stenosi ³30% e <50%, [iii] malattia coronarica lieve trivasale o del tronco comune con stenosi ³30% e <50%), ematobiochimici e farmacologici.

L’endpoint primario dello studio costituiva un composito di mortalità per tutte le cause, IMA, SCA, scompenso cardiaco richiedente ospedalizzazione, stroke. Su 621 pazienti, 106 (17.1%) sono andati incontro all’endpoint primario, di cui 27 (4.3%) deceduti.

All’analisi multivariata i pazienti in terapia con ASA [HR 2.47 (1.05 – 5.78), p = 0.04], storia di fibrillazione atriale [HR 1.97 (1.17 – 3.32), p = 0.01], sopraslivellamento del tratto ST al ricovero [HR 2.28 (1.45 – 3.57), p < 0.001], funzione ventricolare sinistra ridotta (< 50%) al ricovero [HR 2.26 (1.06 – 2.63), p = 0.02], hanno mostrato associazione positiva indipendente con l’endpoint primario. Il contrario è stato osservato per i pazienti in terapia con betabloccanti [HR 0.49 (0.31 – 0.79), p = 0.02].

Va sottolineato come, anche in precedenti studi, l’impatto della terapia sull’outcome abbia mostrato risultati contrastanti. Un lavoro svedese ha dimostrato un miglioramento dell’outcome nei pazienti in terapia con statine o ACE-inibitori/ARB, mentre solo un trend benefico per i beta bloccanti [7], seppure la popolazione in esame risultasse altamente eterogenea. Un altro studio Coreano ha mostrato un significativo incremento di mortalità per tutte le cause per i pazienti non in terapia con bloccanti del sistema RAA e statine [8]. In ultimo, una meta-regression analysis di 44 studi e 36932 pazienti ha evidenziato una mortalità per tutte le cause più alta nei pazienti betabloccati [9].

La popolazione in esame era probabilmente differente da quelle dei precedenti studi a causa di criteri di esclusione più rigidi, seppure non sia escludibile una certa eterogeneità nella definizione di MINOCA.

Alcune possibili limitazioni erano la non disponibilità estensiva di metodiche diagnostiche avanzate come la RM cuore, la biopsia endomiocardica, i test provocativi per lo spasmo coronarico e l’imaging intracoronarico, che in una percentuale di casi avrebbe potuto identificare trombosi endoluminali, rotture o erosioni di placca misconosciute, cause non infrequenti di MINOCA, oltre a modificare il successivo iter terapeutico [10]. In ultimo, non erano disponibili dati disaggregati per morti cardiovascolari e non, che avrebbero potuto fornire ulteriori informazioni soprattutto nei pazienti in terapia con ASA.

I risultati del lavoro pongono degli interrogativi riguardo alla terapia che attualmente viene prescritta a pazienti con MINOCA, che costituisce un gruppo fisiopatologicamente eterogeneo, tanto da evidenziare degli effetti addirittura negativi dell’ASA in questo gruppo di pazienti. A tale scopo sono necessari ulteriori studi su più vasta scala al fine di trovare il percorso terapeutico ottimale.

Bibliografia

  1. J.F.Beltrame, Assessing patients with myocardial infarction and non obstructed coronary arteries (MINOCA), J. Intern. Med. 273 (2) (2013) 182–185.
  2. S. Pasupathy, T. Air, R.P. Dreyer, R. Tavella, J.F. Beltrame, Systematic review of patients presenting with suspected myocardial infarction and nonobstructive coronary arteries, Circulation. 131 (10) (2015) 861–870 10.
  3. K. Thygesen, J.S. Alpert, A.S. Jaffe, et al., Fourth universal definition of myocardial infarction (2018), Eur. Heart J. 40 (3) (2019) 237–269.
  4. S. Agewall, J.F. Beltrame, H.R. Reynolds, A. Niessner, G. Rosano, A.L. Caforio, R. De Caterina, M. Zimarino, M. Roffi, K. Kjeldsen, D. Atar, J.C. Kaski, U. Sechtem, P. Tornvall, WG on Cardiovascular Pharmacotherapy. ESC working group position paper on myocardial infarction with non-obstructive coronary arteries, Eur. Heart J. 38 (2017) 143–153.
  5. Collet J P, Thiele H, Barbato E, et al.ESC Scientific Document Group, 2020 ESC Guidelines for the management of acute coronary syndromes in patients presenting without persistent ST-segment elevation: The Task Force for the management of acute coronary syndromes in patients presenting without persistent ST-segment elevation of the European Society of Cardiology (ESC), Eur. Heart J., ehaa575.
  6. Ciliberti G, Verdoia M, Merlo M, Zilio F, Vatrano M, Bianco F, Mancone M, Zaffalon D, Bonci A, Boscutti A, Infusino F, Coiro S, Stronati G, Tritto I, Gioscia R, Dello Russo A, Fedele F, Gallina S, Cassadonte F, Ambrosio G, Bonmassari R, De Luca G, Sinagra G, Capucci A, Kaski JC, Guerra F. Pharmacological therapy for the prevention of cardiovascular events in patients with myocardial infarction with non-obstructed coronary arteries (MINOCA): Insights from a multicentre national registry. Int J Cardiol. 2021 Mar 15;327:9-14.
  7. B. Lindahl, T. Baron, D. Erlinge, et al., Medical therapy for secondary prevention and long-term outcome in patients with myocardial infarction with nonobstructive coronary artery disease, Circulation. 135 (16) (2017) 1481–1489.
  8. E. H. Choo, K. Chang, K. Y. Lee, et al., Prognosis and predictors of mortality in patients suffering myocardial infarction with non-obstructive coronary arteries, J. Am. Heart Assoc. 8 (14) (2019 Jul 16), e011990, .
  9. F. Pelliccia, V. Pasceri, G. Niccoli, et al., Predictors of mortality in myocardial infarction and nonobstructed coronary arteries: a systematic review and meta-regression, Am. J. Med. 29 (2019 Jun).
  10. Opolski MP, Spiewak M, Marczak M, et al. Mechanisms of myocardial infarction in patients with nonobstructive coronary artery disease: results from the Optical Coherence Tomography study. JACC Cardiovasc Imaging 2018 Oct 12. doi: 10.1016/j. jcmg.2018.08.022.

Read more: https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/33242505/

Presentazione-standard2

Takotsubo syndrome in COVID-19 era: Is psychological distress the key?

First author: Lucia Barbieri

Division of Cardiology, ASST Santi Paolo e Carlo, Milan, Italy.

Commentary by Luca Allievi, MD, Department of Cardiology, Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, University of Milan, Milan, Italy.

COVID-19 pandemic has radically changed our lives: the world has been completely overwhelmed by the fear of being infected, demonstrated by the significant decrease in the number of emergency department visits and cardiology procedures. The social isolation and quarantine contributed to the onset of pessimism, mental disorders and marked stress.

Stress is a risk factor for cardiovascular diseases. The relationship between Tako-Tsubo syndrome (TTS) and stressful events has been demonstrated by several studies, though the pathophysiology has not been completely understood yet. The decrease in cortisol and the increase in catecholamines has been associated with TTS.

During the COVID-19 pandemic (February to May 2020), Barbieri et al. detected a higher number of admissions for TTS compared to the same period of 2019 (11 vs. 3). Two patients were male, positive for COVID-19 and both unfortunately deceased. Six of the remaining women (all negative for COVID-19) underwent a psychological assessment, which consisted of the evaluation of allostatic overload, psychological distress, traumatic experiences and the fear of COVID-19 through questionnaires and scales (DCPR-R, HADS, IES-R, Fear COVID-19 scale, respectively). They reported a particularly stressful experience at IES-R in the last year, without presenting the symptoms of a post-traumatic stress disorder; in addition, all patients were positive about the allostatic overload. Therefore, subjects with pre-pandemic psychological distress may have experienced additional psychological overload with a series of physiological alterations (as the secretion of cortisol and catecholamines), making the subject more vulnerable to the onset of TTS.

This study suggests the existence of a relationship between psychological distress caused by the COVID-19 pandemic and TTS. Male patients are less likely to develop TTS, but the SARS-COV-2 infection may have triggered TTS by further increasing the pre-existing psychological distress; afterwards, COVID-19 infection and TTS certainly had a synergic effect in determining the poor prognosis in these patients.

For this reason, it would be important to relieve stress and anxiety among people, mainly through social media, which often have an opposite effect instead

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abstract grafico very short dapt

Very short vs. long dual antiplatelet therapy after second generation drug-eluting stents in 35785 patients undergoing percutaneous coronary interventions: a meta-analysis of randomized controlled trials

A cura di Roberta Lotti, Università degli studi di Genova

L’utilizzo della duplice terapia antiaggregante nei pazienti affetti da sindrome coronarica, sia acuta sia cronica, presenta ancora numerose controversie: tra queste, l’efficacia e la sicurezza di un trattamento estremamente breve rispetto al “tradizionale” trattamento prolungato per 12 mesi. Infatti, una duplice antiaggregazione di lunga durata garantirebbe una più solida protezione dal rischio ischemico, tuttavia a prezzo di un aumento del rischio di sanguinamento, mentre, al contrario, una duplice antiaggregazione di breve durata risulterebbe più sicura dal punto di vista emorragico offrendo, però, una minor efficacia sul rischio ischemico. Tale problema è anche maggiormente amplificato quando ci troviamo a gestire pazienti affetti da concomitanti comorbilità che comportano un elevato rischio di sanguinamento.

Questa interessante meta-analisi ha confrontato una strategia di lunga durata (12 mesi) contro una strategia di durata molto breve (1 o 3 mesi) in  35 785 pazienti provenienti da trials clinici randomizzati e dimostra come l’utilizzo di una duplice antiaggregrazione molto breve sia comparabile all’utilizzo di una duplice antiaggregazione tradizionale in termini di efficacia sul rischio ischemico. Inoltre, il trattamento breve si associa ad una significativa riduzione degli eventi emorragici in confronto al trattamento prolungato. Tutto ciò sembra dunque supportare la fattibilità e la sicurezza di una duplice antiaggregrazione di breve durata. Per saperne di più leggete l’articolo completo!

Read More: https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/31942965/

FFRandAge modificato

Impact of aging on the effects of intracoronary adenosine, peak hyperemia and its duration during fractional flow reserve assessment

First author: Monica Verdoia

Division of Cardiology, Department of Translational Medicine, Azienda Ospedaliera-Universitaria ‘Maggiore della Carità’, Eastern Piedmont University, Novara, Italy;

Department of Cardiology, UMC St Radboud, Nijmegen Division of Cardiology, Department of Cardiology, ISALA Hospital, Zwolle, The Netherlands.

La valutazione funzionale mediante FFR (fractional flow reserve) rappresenta oggi il gold standard per lo studio delle stenosi coronariche di grado intermedio, in assenza di evidenza di ischemia nei test non invasivi (1). Il ruolo dell’FFR risulta importante anche nel selezionare le lesioni su cui eseguire PCI nel contesto di una coronaropatia multivasale (2), sia nei pazienti con malattia coronarica cronica che nel contesto della sindrome coronarica acuta, dove la rivascolarizzazione FFR-guidata delle lesioni “non-culprit” è superiore alla sola terapia medica ottimizzata (3).

Tale metodica è davvero così precisa o esistono delle condizioni che possono influenzarne i risultati? Purtroppo, esistono fattori clinici e angiografici che possono influenzare le misurazioni FFR. Tra questi, uno dei più comuni, ma forse meno indagati è rappresentato dall’invecchiamento, in quanto l’età avanzata si associa ad alterazioni micro e macrovascolari ed a disfunzione endoteliale, più elevate pressioni telediastoliche ed una perdita della risposta vasodilatatoria, condizioni che possono ridurre il gradiente pressorio attraverso una stenosi coronarica e determinare valori più elevati alla misurazione FFR, rischiando quindi di sottostimare la rilevanza di una stenosi (4).

Il presente lavoro rappresenta uno dei primi studi in cui è stato valutato il ruolo dell’invecchiamento nelle misurazioni FFR in 276 pazienti con lesioni coronariche intermedie (40-70% all’angiografia). Nei pazienti con più di 70 anni sono stati osservati valori FFR più elevati e una ridotta risposta all’adenosina, con una minore durata dell’iperemia indotta dopo boli crescenti di adenosina rispetto ai pazienti più giovani. Pertanto, questa popolazione più anziana, che rappresenta quella più frequentemente osservata nei nostri laboratori di Emodinamica, rappresenta ancora una sfida, in quanto a rischio di incorrere in misurazioni FFR falsamente negative. Tuttavia, il nostro lavoro non ha valutato l’impatto prognostico di tale risultato. Pertanto, ulteriori studi sarebbero necessari per definire l’impatto della sottostima dell’FFR sul rischio di eventi cardiovascolari negli anziani e per identificare strategie alternative per la valutazione funzionale delle stenosi coronariche, con particolare attenzione alle metodiche adenosina-indipendenti.

1)Neumann F-J, Sousa-Uva M, Ahlsson A, Alfonso F, Banning AP, Benedetto U, et al. 2018 ESC/EACTS Guidelines on myocardial revascularization. Eur Heart J. 2018 Aug 25.

2) Tonino PA, De Bruyne B, Pijls NH, Siebert U, Ikeno F, van’ t Veer M, Klauss V, Manoharan G, Engstrom T, Oldroyd KG, Ver Lee PN, MacCarthy PA, Fearon WF; FAME Study Investigators. Fractional flow reserve versus angiography for guiding percutaneous coronary intervention. N Engl J Med 2009; 360:213–224.

3) De Bruyne B, Pijls NH, Kalesan B, Barbato E, Tonino PA, Piroth Z, Jagic N, Mobius-Winkler S, Rioufol G, Witt N, Kala P, MacCarthy P, Engstrom T, Oldroyd KG, Mavromatis K, Manoharan G, Verlee P, Frobert O, Curzen N, Johnson JB, Juni P, Fearon WF; FAME 2 Trial Investigators. Fractional flow reserve-guided PCI versus medical therapy in stable coronary disease. N Engl J Med 2012; 367:991–1001.

4) XiongjieJin, Hong-Seok Lim, Seung-JeaTahk, Hyoung-Mo Yang, Myeong-Ho Yoon, So-Yeon Choi, et al. Impact of Age on the Functional Significance of Intermediate Epicardial Artery Disease. Circ J 2016; 80; 1583 -1589.

Commento di Rocco Gioscia, Università del Piemonte Orientale, Novara

Read More: https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/33471468/

Patients with acute myocardial infarction and non-obstructive coronary arteries: safety and prognostic relevance of invasive coronary provocative tests

First Author: Rocco A. Montone

Department of Cardiovascular and Thoracic Sciences, Catholic University of the Sacred Heart, L.go A. Gemelli, 8, 00168 Rome, Italy.

Le alterazioni funzionali delle coronarie, sia a livello epicardico che microvascolare, svolgono un ruolo importante nel determinare ischemia miocardica. I test provocativi con acetilcolina o ergonovina intracoronarica sono molto utili per diagnosticare la presenza di alterazioni della vasomotilità coronarica. In questo lavoro abbiamo valutato la safety e il valore prognostico dei test provocativi nei pazienti con infarto miocardico acuto e coronarie non ostruite (MINOCA).

Abbiamo dimostrato come il tasso di complicanze dei test provocativi nel contesto acuto sia sovrapponibile a quelle dei pazienti con sindrome coronariche croniche. Inoltre, la presenza di un test provocativo positivo si associava ad una prognosi peggiore sia in termini di hard endpoint (mortalità generale, morte cardiovascolare, ricorrenza di ACS) che in termini di qualità di vita (SAQ score). Nei pazienti con test provocativo positivo, la sospensione o la riduzione del dosaggio di ca-antagonisti al follow up si associava ad un aumento del numero di eventi cardiovascolari.

Read More: https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/29228159/

Vitamin D deficiency is independently associated with the extent of coronary artery disease

First Author: Monica Verdoia

Division of Cardiology, Azienda Ospedaliera-Universitaria “Maggiore della Carità”, Eastern Piedmont University, Novara, Italy.

Commentary on: Vitamin D deficiency is independently associated with the extent of coronary artery disease

By Ilaria Coccia, Policlinico Tor Vergata, Roma

Vitamin D is a secosteroid hormone, well known for its role in calcium and phosphate metabolism and bone health homeostasis. In the last decades, a stronger evidence about the correlation between vitamin D and coronary artery disease (CAD) is spreading in the Scientific Community. This is the first large study to investigate the relationship between vitamin D levels and the extent of CAD.

Some studies showed that the binding of vitamin D to vitamin D receptor (VDR) regulates numerous genes involved in cell proliferation and differentiation, apoptosis, oxidative stress, membrane transport, matrix homeostasis and cell adhesion. Merke et al. demonstrated the presence of VDR in bovine aortic endothelial cells and in human dermal capillaries and Norman and J.T. Powell discovered a real vitamin D micro-endocrine system in the cardiovascular cells.

These discoveries opened the way to further studies about the connection between Vitamin D levels and myocardial infarction. Vitamin D may modulate the pathogenesis of atherosclerosis influencing the immune system: on the one hand it increases the expression of anti-inflammatory cytokines such as IL-10 and on the other hand it decreases the expression of pro-inflammatory molecules, it suppresses TH1 and TH17 cells favouring the differentiation of Treg and TH2 cells.[59] Both 1,25(OH2) D and 25(OH)D inhibit the production of tumour-necrosis factor-α (TNFα) and IL- 6 by targeting monocyte/macrophage mitogen-activated protein kinase phosphatase-1. This is highly relevant to atherosclerosis given that cytotoxic T cells and leukocytes’ enzymes, as matrix metalloproteinase 9 (MMP-9), promote the vulnerability of the plaque.

Vitamin D also plays a role in vascular calcification, a multifactorial process with deep clinical implications. In addition to this everal papers have reported a relationship between vitamin D levels and Hypertension, describing Vitamin D as a negative regulator of the renin-angiotensin-aldosterone system (RAAS) in VDR knockout models.

Verdoia et al. enrolled 1484 patients undergoing elective angiography in a cross-sectional study. Hypovitaminosis D was observed in 70.4 % of them. Patients were divided into vitamin D tertiles (<9.6;9.6-18.4;18.4) and after a data adjustment for baseline characteristics (age, gender, renal failure, smoking, acute presentation, calcium antagonists, diuretics, beta-blockers, statins, haemoglobin, platelet count, total and LDL cholesterol, triglycerides), the association between vitamin D levels and CAD reached a statistical significance (adjusted OR [95%CI] = 1.32[1.1–1.6], P = 0004). Moreover, vitamin D levels were significantly lower in patients with severe CAD (adjusted OR[95% CI] = 1.73[1.18–2.52], P = 0005), and especially for patients with vitamin D values < 10 ng/mL, that should be regarded as those at higher potential cardiovascular risk. In addition, Verdoia et al. identified a significant association between vitamin D and major risk factors, finding that vitamin D is directly related to haemoglobin levels (P < 0001) and inversely to platelet count (P = 0002), total and low-density-lipoprotein (LDL) cholesterol (P = 0002 and P < 0001, respectively) and triglycerides (P = 001).

However, despite this clinical evidence, contrasting results have been reported with cholecalciferol supplementation in cardiovascular prevention and further studis are nedeed to establish if vitamin D could be used in the prevention and therapy of CAD.

Read more: https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/29656938/

Effects of glucagon-like peptide-1 receptor agonists on major cardiovascular events in patients with Type 2 diabetes mellitus with or without established cardiovascular disease: a meta-analysis of randomized controlled trials

First Authors: Fabio Marsico and Stefania Paolillo

Department of Advanced Biomedical Sciences, University of Naples Federico II, Via Pansini, 5, I-80131 Naples, Italy.

Glucagon-like peptide-1 (GLP-1) receptor agonists are recommended by European guidelines as first choice in diabetic patients with known cardiovascular (CV) disease or at high CV risk, or as second choice in patients already taking metformin. RCTs reported inconsistent effects on myocardial infarction (MI) and stroke, and limited data in diabetic patients without established CV disease are available. In this trial-level meta-analysis, we analyzed data from randomized placebo-controlled CVOTs assessing efficacy and safety of GLP-1 receptor agonists in type 2 diabetic subjects, including an overall of 56.004 patients. We observed that in the entire population GLP-1 receptor agonists significantly reduced by 12% the risk of major adverse CV events (MACE) (HR 0.88, 95% CI 0.80–0.96) together with a significant reduction in the risk of CV mortality (HR 0.88, 95% CI 0.79–0.98), all-cause mortality (HR 0.89, 95% CI 0.81–0.97), fatal and non-fatal stroke (HR 0.84, 95% CI 0.76–0.94), and heart failure hospitalization (HR 0.92, 95% CI 0.86–0.97). No significant effect was detected for MI (fatal and non-fatal). Interestingly, no differences in efficacy on MACE were found between patients with established CV disease and patients with CV risk factors only (HR 1.06, 95% CI 0.85–1.34) (secondary vs. primary CV prevention). These data sustain the recent ESC/EASD recommendations, providing a strong support to a favorable protective effect of GLP-1 receptor agonists at earlier stages of the CV disease course in diabetic patients.

Read More: https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/29228159/

Out-of-Hospital Cardiac Arrest during the Covid-19 Outbreak in Italy

First Author: Enrico Baldi

Department of Molecular Medicine, Section of Cardiology, University of Pavia, Pavia, Italy; Cardiac Intensive Care Unit, Arrhythmia and Electrophysiology and Experimental Cardiology, Italy.

Dramatic spike in out-of-hospital cardiac arrest incidence in an highly affected region (Lombardy, northern Italy) during the first 40 days of COVID-19 pandemic

Podcast

Read more: https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32348640/